Che i taxisti newyorkesi siano una leggenda lo sapevi. E lo avevi pure sperimentato. Eppure riescono sempre a sorprenderti. Arrivi in aeroporto dopo otto ore di volo, valigie, marito e bambini al seguito. Un po’ stanca, non fosse altro perché tuo figlio soffre il mal d’aria, oltre al mal d’auto, d’acqua, di treno, insomma di ogni mezzo di locomozione che non siano le sue gambine. E quindi ha già battezzato il suolo americano. Come dire, marchiamo subito il territorio e via. Perciò te lo trascini e sei stanca. Ma hai prenotato il taxi e sei tranquilla, tra poco hotel e nanna. Ti viene incontro il taxista, mezza età, di colore, occhiali sulla testa rasata, camminata alla Will Smith, gomma in bocca. Parte e sei subito più sveglia. Sembra di essere sull’auto scontro dei Brivio il giorno della festa del paese. Slalom tra le auto nell’ora di punta, frena, inchioda, riparte, il tutto con questo movimento dinoccolato della testa che a questo punto capisci non essere una mossa alla Michael Jackson in Moonwalker, ma un tic, che segue l’andamento delle curve che sto Hamilton di Harlem disegna dirigendosi verso Manhattan. E meno male tuo figlio si è addormentato, se no altroché marcare il territorio, che qui è come essere sull’Oblivion di Gardaland. Al semaforo, un leit motiv: inchioda, sputa due o tre volte fuori, beve e strombazza, a volte saluta il taxista di fianco, con uno slang che mi fa impazzire. Un po’ presbite il taxi driver, sì perché oltre a mollare il volante per chattare sul telefono che ha in mezzo alle gambe e a regolarsi l’auricolare dell’ipod, ogni due per tre abbassa gli occhiali dalla montatura rosso chanel very fashion che ha sulla testa per guardare il navigatore, più tecnologia in un metro quadrato che in tutto il negozio della Apple. Eppure pian piano il feeling della grande mela entra dai finestrini, non appena il tuo sguardo viene investito dal tramonto su cui si staglia il profilo del Chrysler Building e dell’Empire, e si posa sui sedili di pelle nera un po’ sudicia e umidiccia di sudore. E cresce la voglia di viversela questa serata newyorkese, mentre la strada si stringe tra i grattacieli e non importa la velocità, il clacson, gli sputi, la nausea che è venuta anche a te. Uno sguardo in alto, eccolo lì, di nuovo, finalmente, il cielo di New York, riflesso nelle finestre dei grattacieli, e già sai che passerai quattro giorni a testa in su. A volare camminando nella grande mela….
Lacolli on the road….si parte
“Coraggio, lasciare tutto indietro e andare, partire per ricominciare….”…il tormentone di questa estate, perfetto questa mattina mentre guardo i bagagli e mi dico ci siamo. Si parte. Si va. E già questo é energia pura. Perché che sia la scampagnata domenicale o la vacanza da sogno, quello che conta è andare. Come scrive Kerouac “dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare”. Ecco andare, conoscere, esplorare, sperimentare. Un viaggio è tutto questo, una dimensione a sè, che ti permette di lasciare a casa problemi, pensieri, la tua stessa vita, e aprirci una parentesi, una sorta di vita nella vita che comunque ti cambierà. Perché al ritorno non si è più gli stessi, quello che abbiamo visto, sentito, annusato, toccato ci rimarrà dentro e saremo un pochino più ricchi, più forti, rinnovati alla vita. E la realtà avrà tratti più definiti, e la valuteremo con più oggettività, come un bel quadro che manifesta la sua bellezza totale e magnetica se lo guardi da lontano, perdendo di vista i particolari. Quindi tra poco si vola. Lontano. Nella città in cui tutto sembra troppo grande per te eppure hai la sensazione di poterlo possedere, tutto, semplicemente camminando tra mille razze diverse. New York, arriviamo. Lacolli on the road, che il viaggio abbia inizio….
21 giugno
Estate. Di nuovo. Con le giornate lunghe e le albe luminose che mi buttano giù dal letto che in realtà è ancora notte, perché quando imparerò a tirare bene giù le tapparelle sarà davvero troppo tardi. E così ti svegli con quel raggio di luce poetico che ti colpisce gli occhi, e un po’ ti senti come il Giovin Signore del Parini, peccato che per lui fosse mezzogiorno, per te le cinque e non è un piacere. E ti giri e ti rigiri, a quel punto tanto vale accoglierla questa estate, il giorno più lungo, alla finestra, con il sole che sorge dietro al condominio di fronte e solo tu con la tua fantasia pensi di essere un druido a Stonehenge e vedi la poesia in un’alba Lomellina di una domenica mattina davvero troppo assonnata per essere goduta a fondo. Estate. Di nuovo. Mare salsedine sabbia e la sensazione del corpo che si risveglia. Del sole che penetra così in fondo e scalda anche gli angoli più freddi, e ti scaldi così tanto che al solito ti scotti, perché sei quella che annulla in due giorni mesi di antirughe e trattamento viso, che altroché protezione adeguata, acceleratore che se non sono nera nera non è estate. Fa niente se dopo una settimana sarò come un rettile del Sud America, e se il naso sarà spellato fino a settembre, e se la ruga sulla fronte sarà sempre più profonda. In fondo in quella ruga c’é la bellezza di tutte le estati passate, degli occhi strizzati a fissare il cielo assolato, delle ore a leggere mentre il mare risacca la sua melodia, dei mille pensieri che l’estate porta con sè, leggeri e azzurri come il colore del mondo. Estate. Di nuovo. Sulle note di un concerto rock, che è quello di uno stadio che ondeggia di mille luci, ma anche quello del mio cuore, che non sa battere al ritmo barocco di uno spartito vivaldiano, ma risuona sempre come i piatti della batteria di Will Hunt, e non sempre è facile ballarci a ritmo. Estate. Di nuovo. Benvenuta…
Tempo
Un po’ che non scrivi mamma, mi fa notare il Lorenzino. Si un po’. Perché non si scrive a comando, perché ci vuole un motivo, un’idea, una situazione. A volte se ne hanno talmente troppe che il cervello non riesce a rielaborarle. O talmente poche e banali che condividerle in fondo non avrebbe senso. Che la banalità è davvero stucchevole, come l’ovvietà e le frasi sul tempo atmosferico. Meglio il silenzio. Il caro trascurato sminuito silenzio. A meno che non siate zen, bio, yoga, insomma una di quelle parole corte che vanno tanto di moda. Chissà perché non mi sono mai piaciute le parole corte, o le troncature, e adesso invece si parla di pale, ape, we, e chi più ne ha più ne metta. Brevi e rapide come il tempo che abbiamo da dedicare agli altri. Il tempo di una spunta su whatsapp, anzi wa, di un messaggio, msg, in cui autoreferenzialitá é un obbligo, talvolta chiosato da un “e tu tt ok?” che sa tanto a me di telochiedomanonmenefregauntubo. A me chissà perché piacciono le parole lunghe, le telefonate, le lettere, per intenderci non abc, ma le lettere con carta e penna oppure anche le buone vecchie mail. Ascoltare, anche, sapete quella cosa che si fa quando qualcuno ti racconta una cosa e cerca un confronto, ecco ascoltare, per lui, per lei, senza mettere subito se stessi al centro. Ma per questo ci vuole tempo, e quello manca sempre a tutti. O almeno così dicono. Secondo me manca un’altra cosa. La voglia, di ascoltare, di dare agli altri, di “perdere” un po’ di questo preziosissimo tempo per un altro, solo perché a questo fa piacere. Ma lo so lo so, se fa piacere agli altri a me cosa torna? Gratis non si fa niente, siamo la società dei consumi e siamo pure in crisi, ci mancherebbe. Figuriamoci pensare a cosa possa far piacere agli altri e magari a noi costa fatica e tempo, perché sbattersi? Tanto poi mando un messaggino con bacino e cuoricino ed è lo stesso, funziona così. Bè si avvisano i lettori che le faccine gialle di whatsapp sono davvero carine ma piuttosto itteriche in onestà, e che il tunnel carpale della chat preferirebbe essere sostituito dalla bocca secca per le chiacchiere, a cui si potrebbe ovviare con una buona birra insieme, o anche per quella ci vuole troppo tempo?
Presentazione del libro Lacolli.com
Programmi
Settimana senza consorte. Viaggio di lavoro. Ti mancherà un sacco, gli dici mentre esce di casa il lunedì mattina. In realtà hai già un programmino niente male. Che, non fraintendete, sarò contenta al suo ritorno, ma dopo ventun anni di assidua frequentazione uno stacco ogni tanto vivifica il rapporto. Lo hai letto anche su qualche rivista, pagine de l’esperto risponde. E in effetti. Che poi il programma si risolve in una serie di dopocena con amiche a ciacolare, al massimo un aperitivino. Anche perché ovviamente ho con me gli altri due maschi della famiglia, a cui non sembra vero di avere la mamma tutta per sè. Che la sindrome di Edipo non è mica cosa da poco. E nell’agenda settimanale inserisci pure il rosario del mese Mariano, a redenzione dei prosecchi che hai intenzione di berti nelle altra sere. Ma quello che non sai é che il suddetto Rosario sarà l’evento della settimana. Si perché le chiacchierate serali saltano come birilli per mille contrattempi, l’aperitivo si riduce prima a un caffè e poi neanche a quello, e ti ritrovi la sera in casa davanti alla tv e meno male c’è Patrick Swayzei che ancheggia in Dirty Dancing a tirarti su il morale, anche se davvero ti senti come Baby, in un angolo. E allora giochi il jolly. L’ultima sera. Locale trendy con i bimbi, sono loro a chiedertelo e ben venga. Vai sul sicuro. Inviti la mamma a venire con te. La mamma non darà buca. E invece anche lei ti da il due di picche salvo poi cedere all’ennesima telefonata. E ci siamo. Ordiniamo, hamburger, patatine, una rossa che riempia il cuore. Musica di sottofondo, chiacchiere con la mamma che è sempre la migliore, due battute con il vicino con cui ricordi tempi andati. Relax. Alla fine la tenacia premia. O così sembra. Per dieci minuti. Il piccolo comincia a dire che ha il mal di pancia, ma sì, adesso passa, mangia, no non passa, avrai preso freddo, sarai stanco, fino sarà colpa della strada e delle curve, manco avessi fatto il passo Gardena. E tu che conosci il pollo, sai che l’idillio è rotto. Cinque minuti e lo vedi schizzare come Mennea in bagno. Già sai. Lo raggiungi ma ovviamente è entrato in quello dei maschietti, e in quel mentre c’è un harleysta uno e novanta per un tot di chili che si incipria il naso. Con nonchalance gli passi accanto, dal bagno tuo figlio emette rumori indicibili, lui ti guarda, e tu sorridi, e ti scappa la battuta, sa il bimbo no sta bene, saranno stati i mojti…che in questi momenti un po’ di ironia aiuta e poi ci sei abituata. In macchina continua la passione, a questo punto le rotonde le prendi tipo autoscontro, ormai la frittata é rotta, l’importante è arrivare presto. E arrivi, scendi, fai scendere tua mamma che plana con delicatezza sul tuo piede zeppato, ma a questo punto dito più dito meno poco importa. In casa, dopo averlo coccolato e sistemato, seduta sul divano, sguardo fisso, una birra, che a questo punto te la sei meritata, senza la forza di andare nel letto. E allora ti metti a scrivere, come al solito, per trovare uno spunto di buonumore, mentre centellini la tua birra e dentro di te brindi al silenzio di questo momento.
Lacolli.com, pensieri parole opere e ammissioni di un tacco 12
Attimi
C’é un filo che lega Archiloco a Vasco Rossi, Orazio all’anonimo internauta di Tumblr. Mi capita spesso di vagare per internet a spulciare frasi, citazioni, parole, è il grande vantaggio della rete, una biblioteca vastissima a portata di mano, paese dei balocchi per una come me sempre alla ricerca di qualcuno che la aiuti a fissare un’immagine, momento, sentimento. Ovviamente necessita di filtro, perché incappare nella morale becera e sdolcinata, che fa apparire il cartiglio del bacio perugina la summa filosofica mondiale, è davvero facile. Dicevamo il filo. Un leit motiv, un memento quasi, perché se dal settimo secolo avanti Cristo abbiamo bisogno di continuare a ripeterlo vuol dire che mica l’abbiamo capito. O meglio che non lo applichiamo. I più lo conoscono grazie a Robin Williams, Capitano mio capitano, quel carpe diem che campeggia pure sulle magliette, quel vivi adesso che ancora stamattina avrò letto in dieci post su facebook. E mi chiedo allora perché è così difficile, perché poi i paladini di questa filosofia facciano spesso una brutta fine, perché il popolare giorno da leone sia frainteso come smodata ciuca o peggio. Perché io il “doman non v’é certezza” del Magnifico l’ho sempre interpretato diversamente. Più lentamente forse. Non è il nunc est bibendum, è piuttosto un tentativo di allargare il presente e farci stare tutte le emozioni possibili, è piuttosto il godere fino in fondo di ogni attimo e non rimandare, per pigrizia, inettitudine, superficialità. Attimi belli e attimi brutti. Di quelli belli faremo tesoro quando il cielo diventerà scuro, di quelli brutti ci serviremo per attraversare il dolore, perché solo facendolo potremo rialzarci più forti e consapevoli di prima. Centellinare gli istanti, ecco. Soffermarsi a guardare il cielo, sentire i profumi, dedicarsi ad ascoltare una canzone, leggere una poesia, baciare i propri cari, respirare insomma questa vita a pieni polmoni. Corta lunga facile difficile felice triste “ci han concesso solo una vita, soddisfatti o no, qua non rimborsano mai….”
Sorriso
La Cri sorride sempre. Frase di un’ora fa. E’ vero, sorrido spesso e volentieri. In fondo le persone meritano il nostro sorriso e non gliene frega un tubo se in realtà siamo a pezzi e invece di un sorriso vorremmo mollare un pugno a qualcuno. Eppure ci sono persone che amano farsi compatire. Che stanno sempre abbastanza bene, che sono sempre un po’ stanche, che ti rispondono con un ma sì, si va avanti. Sapete quelle che sono strafighe appena uscite dal parrucchiere, piega da urlo, trucco perfetto, il ritratto della salute, che manco una carie hanno, le incontri al bar mentre si bevono un cafferino in relax e alla domanda ciao, come va?, ti rispondono: ma sì, dai. Ma sì, dai? E cosa volete per dire bene? L’abbonamento alla beauty farm e Gabriel Garko ante botox che vi massaggia la schiena? No, non ci siamo. Ste facce scure, tutte le mattine, manco Atlante che reggeva il mondo aveva quel ghigno o Prometeo mentre l’aquila trastullava il suo fegato. Che i problemi li abbiamo tutti. Anche lacolli, a cui girano spesso e volentieri, problemi gravi o banali, questo poi lasciate che sia io a giudicare. Che anche qui, serie e pronte a farti pelo e contropelo, anzi l’ecografia, che magari un giorno o l’altro chiedo il referto, che la prevenzione è tutto. Ecco sì, io sorrido, al lavoro, in casa, tra amici. E non mi sforzo. Anzi, sorridere mi aiuta, a forza di farlo anche la tristezza di una giornata senza sole, anche la delusione di un malinteso che cancella una poesia sulla sabbia, ecco anche un’anima affranta ritrova l’energia per vedere il bicchiere mezzo pieno. Provateci anche voi, regalate sorrisi, non vi assicuro che ne riceverete in cambio tanti, e magari davvero pochi, uno però ve lo prometto: il vostro mentre vi specchiate la mattina.
Maggio
Arriva maggio. E il profumo dell’estate dietro l’angolo. Anche se il cielo è coperto ed oggi sembra davvero il cotone che la nonna teneva nella scatola delle punture, morbido, ondulato, che era un peccato staccarne un pezzetto e bagnarlo con il disinfettante togliendone la soffice magia. Anche se c’é un vento teso sul mio mare di schiuma, e salsedine ovunque, sulle mani, sui vestiti, tra i miei ricci che la catturano e almeno potessero rendermela a rilascio lento quando sarò di nuovo tra le risaie. Ecco, anche se insomma è stato un primo maggio da foulard e ombrello e non certo da prova costume, io l’estate la sento addosso. É come il “Sabato nel villaggio”, la vigilia della stagione più bella, in cui assapori quel che sarà, e lo costruisci con la fantasia, pezzo dopo pezzo, lo componi e ricomponi mille volte, in un puzzle dalle infinite combinazioni. La gioia dell’immaginare, senza illusioni o progetti, fantasie di una che i piedi per terra li tiene malvolentieri, molto più bello sentirsi su una nuvoletta ad annaffiare i propri sogni e a costruire astronavi piene di musica, poesia, parole e sorrisi. Benvenuto maggio, benvenute emozioni….