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Corteggiamento

Il corteggiamento nel mondo animale segue regole ben precise e in molti casi affascinanti, si tratta spesso di vere e proprie danze nell’aria, di colori sgargianti, di odori che si cercano e si fondono. Etologia animale, scientifica in effetti, precisa e lineare. E in quanto animali anche noi uomini seguiamo spesso un copione. Che ha sempre il fine ultimo della riproduzione. Fin qui Piero Angela e Quark. Poi arriva la De Filippi di Uomini e Donne e entriamo nel vivo del cosiddetto corteggiamento maschile nel XXI secolo. Cosiddetto perché, per usare un linguaggio più consono, a batterla a una donna bisogna essere capaci. Non c’é storia. Poi, per carità, magari il risultato lo porti a casa lo stesso, conta il fine e non il mezzo, ma ragazzi c’é mezzo e mezzo. Premettiamo che noi donne adoriamo essere corteggiate, ricevere complimenti, fosse anche un Ciao bela per strada, un fischio da un’impalcatura, ci piace un sacco. Se no perché passeremmo ore in palestra, parrucchiere, estetista, un armadio come uno store di Zara, trucco e parrucco? Si si ok l’amor proprio, ma siamo oneste, l’attenzione maschile ci lusinga. In ogni caso. O quasi. Si perché un conto è il commentino per strada, un conto è il caterpillar che ti aggancia tipo radar aereo e tenta in tutti i modi di infilare il missile. Senza la minima allusione, diretto come un Freccia Rossa. Fregandosene del luogo e del fatto naturalmente che io indossi una fede simile all’anello di Bilbo nel Signore degli anelli, grande e pesante, insomma si vede. Ma quello ho capito essere un dettaglio di poco conto, il battitore libero mira a portare a casa il successo. E ci prova in un locale serale, con le battute sul fisico, prima un po’ più timide poi così dirette che vorresti dirgli ma ti rendi conto cosa stai dicendo? Ma magari ha bevuto e passi oltre. In disco è un po’ tutto concesso. In palestra decisamente meno. Ci vado per allenarmi. Se ti attacchi tipo cozza mentre lo faccio un po’ mi da fastidio. Se sono carina e gentile è carattere, non vuole dire che devi commentare il mio lato B nel più scurrile dei modi. Perché questo ragazze urta un po’, tenendo conto che a farlo non sono i ragazzini ma quelli che una volta erano uomini di mezza età, adesso siamo tutti ragazzi, anche a 50 anni. Ma il peggio è al lavoro. Ufficio pubblico. Tanta gente. Le proposte mentre ti faccio un documento anche no. Con aria sorniona ti dice che se vuoi potete controllare se i dati sono giusti prendendo un aperitivo, che sei vestita bene, che verrà in questo ufficio più spesso…A questo punto penso che forse dovremmo essere davvero più scostanti e tirarcela da qui a Roma, perché a dare corda uno si prende spazi che non ci sono. E poi ripeto, il modo. Provate coi doppi sensi se proprio deve essere, fatelo a piccole dosi, siamo signore insomma, il nudo e crudo non ci va, siamo in grado di capire se può essere e voi anche. Se rispondiamo a monosillabi vuol dire che non c’é storia, passate oltre, esercitatevi con vostra sorella, mamma, zia. Lo dico per voi. Perché il confine tra galanteria e tammarraggine è sottile come una velina e basta un aggettivo per rovinare tutta la vostra fatica. Capito?

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Caldo

I primi assaggi di autunno. Proprio una mini degustazione per ora, che personalmente anelo dopo il caldo di questa estate che mi ha decisamente prostrato. Perché togli togli, per quanto minimal e sull’orlo della denuncia per oltraggio al pudore, a una certo punto abbiamo sudato anche per battere le palpebre. E poi basta vedere gente che fa il bagno anche nella pipì del cane, voi non avete idea cosa voglia dire lavorare con la vista di una fontana animata tutto il giorno da bambini, e non solo, che ci saltano in mezzo, fanno la doccia, il bidet e altre amenità. Va bene che il Tg parla solo delle fontane romane e dei turisti che le hanno prese per l’Acquafan, ma anche nella nostra Lomellina i cultori del bagno tra le bellezze architettoniche non mancano. Per non parlare del Naviglio. Arrivi ad Abbiategrasso e ti accoglie, lì, a bordo strada, la visione di tanta carne cui faresti volentieri a meno, short, bikini, mutandoni e reggiseni. Sembra un girone dantesco. Fosse almeno roba bella alla vista potresti pensare che stiano girando una pubblicità. E invece no. L’anti palestra, dieta sana, e soprattutto l’anti decenza. E ve lo dice una che normalmente passa e va oltre, che non si cura di quello che fanno gli altri e che desidererebbe che anche gli altri lo facessero, a dire il vero. Ma la scena del tipo di mezza età che alle tre del pomeriggio arriva inizio naviglio con la bici vestito delle sole mutande, ed erano slip vi assicuro, non costumino sexy bianco, fisico non propriamente tonico, tintarella ufficio, mette giù la bici e con nonchalance fa il carpiato, anzi la panciata, in Naviglio, ti lascia a bocca aperta. Talmente assurdo che anche i bambini urlano “ei mamma guarda, siamo a Paperissima!” No figlioli, non è la TV e non è fiction. È la realtà. Ci sono tante belle rogge in campagna, tante spiaggette a Ticino, cosa ci vuole, tutte meglio della rotonda di Abbiategrasso scambiata per l’occorrente con l’Idroscalo. Con tanto di borsa frigo e parmigiana. Ma forse è il nuovo trend e me lo sono perso. Recupererò la prossima estate, zona darsena per essere più cool. Intanto, benvenuto settembre….

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L’estate sta finendo

Trent’anni e non sentirli L’estate sta finendo. E allora, sdraiati sui letti dei bambini, scatta il mood dei successi anni 80. E via con Sandy Marton e People from Ibiza, Madonna di True Blue, i Simple Minds e gli Europe. Ballando e cantando in una sera piovosa. E poi Jovanotti di Gimme Five, che ti ricorda sempre quel tizio in vacanza studio con te a Londra che il terzo giorno di soggiorno aveva speso tutti i soldi per una chitarra elettrica e aveva poi passato le due settimane successive ad hamburger a sbafo. Ma una chitarra da Carnaby Street vuoi mettere? Un quarto di secolo è passato e me lo ricordo come ieri. Grandissimo. Nuovo giro su YouTube e salta fuori Nick Kamen, Each time you break my hearth, che altroché Gabriel Garko, il poster grandezza naturale e Cioè in mano con le istruzioni su come si faceva a limonare. E allora lui tira fuori per controbattere Patsy Kensit I’m not scared, ok ok grande personale. E intanto i due legittimi proprietari della stanza ci guardano da dietro i libri un po’ schifati, sta roba vecchia, preistoria. Un po’ come facevo io quando mia mamma ballava e cantava i Dik Dik o Mal dei Primitives. Forse meglio gli Stones che mettono d’accordo tutti. Ma adesso vi lascio, Cindy Loper “girls just want to have fun”…come fai a 

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Letture

Letture estive. Un’abitudine vecchia una vita per me. Che i libri sono la prima cosa che infilo in borsa prima di una vacanza. Immancabili nella cesta della spiaggia, da sempre. Ragazzina in riva al mare, asciugamano, pancia in sotto, occhiali, libro. Un tuffo ogni tanto e poi di nuovo immersione nelle righe. Che tutti i libri di quegli anni sono rovinati dall’acqua, pieni di granelli di sabbia, vissuti si dice. A volte perfino sulla piattaforma, nuotando con un braccio e con l’altro tenendo sollevato il sacchetto con dentro la mia compagnia preferita. A nutrirmi di storie. Robetta tipo “Jane Eyre”, “Cime Tempestose”, “Anna Karenina”…e poi autori come Guy de Maupassant, Hesse, D’Annunzio…che poi una si crea un ideale sentimentale un po’ alterato, da romanzo d’appendice, e a tredici anni sono fondamentali che pesano. Alle mamme delle femmine, attente alle letture, su certe bisognerebbe scrivere vietato ai minori di, che da giovani ste paladine del sentimento ti influenzano più delle cosiddette compagnie sbagliate. Che poi cresci con il mito del principe azzurro e dell’amore che trionfa sempre. E non é una bella cosa. E a dare il colpo di grazia arriva il liceo classico e le eroine alla Medea e Antigone. Oggi forse avrei letto “50 sfumature di grigio”, sempre un po’ deviante ma perlomeno più divertente e dagli esiti decisamente meno tragici. Non lo so. Viste le fregature da sentimentalista scollata dalla realtà, col tempo mi sono dedicata ai gialli, thriller e più c’é sangue meglio è. Insomma alla realtà. Dal pink al noir, da Beautiful a Quarto grado. Che amarezza….

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Tiffany & co.

Giornata uggiosa. Giretto al mercato ligure. Bancarella di collanine, braccialetti, perline. In pieno Amarcord, sognante, guardi il tuo lui e “da ragazzina venivo sempre qui a comperare tutte queste cosine, colorate, vivaci, che tempi!” Lui ti lascia finire e con giusto un velo di ironia ribatte “adesso vai da Tiffany sulla Fifth Avenue…”…touchè…capitano 1-lacolli 0 (per la serie mi rinfaccerà a vita un peccatuccio giusto per sentirmi come Audrey…)

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Rincorrendo pensieri

Ombrellone, lettino, bordo piscina in un caldo sabato di luglio. Niente da leggere. Cellulare nella borsa, social anche loro in relax per un po’. Occhi chiusi sotto gli occhiali scuri e davvero voglia di isolarsi dal mondo. E per un po’ ci riesci. Seguendo l’onda di un pensiero che da un paio di giorni rincorri ma nel trambusto del rientro da un lungo viaggio non riesci a portarlo fino in fondo. Capita spesso, una riflessione, un’illuminazione troncata dalla necessità del contingente. A volte non ritorna, e allora la lasci sfuggire perché forse non era così forte da meritare un cassetto della tua mente. Altre volte invece si ripresenta e man mano ne aggiungi un pezzetto, interrotta dalla voce di tuo figlio, dal suono della pentola a pressione che prima o poi davvero esplode, dal telefono che sembra non dare tregua. Eppure non se ne va. E con tutti questi rimandi fai fatica a darle forma, come tutti i lavori portati a termine con continue interruzioni, hanno un che di raffazzonato. E un pensiero non può essere raffazzonato. E allora in questo pomeriggio di apparente tranquillità, cerchi di riprenderlo da dove è iniziato e di portarlo per mano alla sua conclusione. Se una conclusione ce l’ha. E a quel punto arriva la doccia fredda. Inaspettata. Non metaforica. Purtroppo. Sí perché in un caldo pomeriggio di luglio ai tuoi uomini non sembrava giusto lasciarti rosolare al sole in silenzio a fantasticare, pensavano ti sentissi trascurata, accaldata, triste insomma. E allora cosa c’é di meglio di una secchiellata d’acqua corroborante? Alle spalle, che non te l’aspetti, uno shock termico che congela qualunque idea, pensiero, e anche i neuroni residui. Pure quelli omicidi nei confronti dei due mattacchioni che hanno ideato il tutto, perché li vedi ridere così di gusto, così belli che in fondo li ringrazi perché ti hanno rinfrescato. Potere dell’amore, capace di trasformare la sensazione più sgradevole in miele dolcissimo. Che poi il pensiero che ronzava in fondo era questo. Dionisiaca o apollinea? Il cuore o la testa? Sentimento o ragione? Una secchiata d’acqua ha risposto che il cuore, in un modo o nell’altro, la vince sempre…

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Williams

Quando organizzi un viaggio on the road la scelta dei pernottamenti é dettata principalmente dalla vicinanza ai luoghi di interesse da visitare e alla disponibilità nei motel. Nel caso del West americano si tratta spesso di paesini costituiti da una via e dai servizi di base, mai sentiti e che probabilmente dimenticheremo una volta tornati a casa. Ecco questo doveva essere Williams, Arizona, all’ingresso del Gran Canyon. Un posto dove cenare e dormire. Punto. E invece ho scoperto uno dei luoghi più incredibili del mio viaggio. Due strade parallele, di cui una la storica Route 66, costeggiate da una ferrovia in cui i treni passano fischiando e buttando fuori fumo, case basse nella migliore tradizione country, negozi ristoranti motel. E fin qui niente di che. Aggiungete però che l’atmosfera è ferma agli anni 50 e 60, senza essere pacchiana o costruita, che le vie sono animate da botteghe con le insegne con le luci al neon che si accendono e si spengono, e all’interno tutto sulla route e sulla sua vita. Posteggiate lungo la via innumerevoli Harley, Cadillac, Chevrolet, tutte old style e tenute benissimo, furgoncini Wolkswagen coloratissimi. Da cui vedi scendere personaggi in linea con il veicolo, riders vestiti di tutto punto dalla bandana al boots, cow boys di ogni età, cappellaccio stivali fibbione, nostalgici di Woodstock con i loro vestiti colorati. Nelle verande dei bar al calare del sole cantanti country con chitarra e microfono riempiono l’aria della colonna sonora perfetta, mentre nei pub dalle luci soffuse, dominati da biliardi su cui sono appoggiate bottiglie di Coors, Sierra Nevada, Bud, il cantante è più rock, ma sempre col cappello da cowboy in testa. E mentre sei lì ferma all’incrocio e ti godi il sound, pensi che questo posto riassume davvero lo spirito americano che ami, così vicino alla natura sbalorditiva del Gran Canyon e davvero on the road, nostalgico quanto basta, eppure palpabilmente autentico. Agli sgoccioli di questo tuffo nel west, ho trovato il giusto feeling. Yes, I got it….

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Cappelli

Seratina steak house dopo trecento miglia e rotti di guida. Quattro italiani in un paesino che è una strada con motel, fast food, distributore e il suddetto ristorante. Entriamo e già siamo diversi perché sono le otto e sono tutti al dessert, qui si cena alle sei e la cucina chiude al massimo alle nove. Siamo così subito simpatici alla cameriera che però, visto che vive di mance, si sforza di essere gentile. I miei figli decidono che non ci hanno notati abbastanza e discutono per chi si siede a destra e chi a sinistra. Sì, siamo italiani, e meno male che l’americano è più casinista di noi. Ci sediamo in una sala in cui ci sono altre due tavolate. A questo punto mi sento in uno dei giochi enigmistici del tipo trova l’intruso. Che stasera è mio marito. L’unico senza berretto con visiera. Ben piazzato sul capo durante la cena. Si perché l’americano vero lo riconosci dal berretto. Pensavo fosse proprio dello yankee in vacanza, uno di quegli oggetti che tutte le guide raccomandano sempre di avere a portata di mano quando si intraprende un viaggio. Come la borraccia, il k-way e i fazzoletti. Invece no, il cap, viene indossato al mattino e vietato toglierlo per qualsiasi ragione. Ragione e galateo del vecchio continente ovviamente. In auto, in chiesa, perfino in aereo, cinque ore di volo senza neanche grattarsi la testa o sistemare la visiera. Con l’accordo non scritto che in un gruppo lo devono portare tutti. A questo punto mi chiedo se lo tengano anche per dormire e fare altro, solo che l’immagine dei tizi al tavolo a fianco nudi con il solo berretto in testa é piuttosto ripugnante e la bisteccona con patata al cartoccio che ho davanti non merita di essere rovinata da simili pensieri. Però, però, come era la colonna sonora di nove settimane e mezzo? Live your hat on…magari…

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Get your kicks on Route 66

On the road vuol dire conoscere da vicino chi la strada la vive e ne detta i ritmi. Ovvero i mezzi che la animano. Sarà che passando da Hollbrook ho rivisto i luoghi da cui è stato tratto il cartone animato Cars, sta di fatto che la mia attenzione è stata catalizzata oltre che dal paesaggio e dal cielo mozzafiato, da tutta la fauna che corre lungo le highways del west. Una fauna cattiva, nel senso che il veicolo americano non ha le forme arrotondate delle nostre auto, ma è spigoloso, materiale, e soprattutto grande. Grandissimo. Sproporzionato. Primi fra tutti i re della Route 66, i tir, con la barra sul muso, i colori sgargianti, il rimorchio in acciaio che riflette le sfumature del deserto dell’Arizona o il cotone delle nuvole bianche in un cielo senza fine: dei bestioni, che dominano la strada, sorpassano a destra e a sinistra, e pensi che se si trasformassero in robot come i Trasformer non ci sarebbe nulla di strano. Accanto a loro, i pick up, larghi il doppio del mio garage, il cassone più ampio del muso, i finestrini sempre abbassati, al volante un tizio col berretto o il cappellaccio da cow boy, che se non ce l’hai il pick up non lo guidi, e nel posto passeggero il cane che mette fuori il muso dal finestrino. Uno sballo davvero. Alcuni patriottici montano la bandiera americana sul retro, altri trasportano amici, tutti, ma proprio tutti, bruciano l’impossibile in quelle marmitte, e il fumo che ne esce non è certo earth friendly. Più educate le auto, che sono solite rispettare segnaletica, limiti, semafori, anche perché qui la polizia se ti ferma ti fa pure la colonoscopia e non è piacevole: grandi anche loro, e molte, moltissime arrugginite, scassate insomma, ma per l’americano in genere è la comodità che conta, sullo stile ci penseremo. A lato della Route, la ferrovia, con i treni merci dai cento vagoni, il vettore posteriore che brucia carbone, il suono continuo: nel terzo millennio ti sembrano ancora i treni della grande marcia verso ovest, quelli attaccati dagli indiani o dalle diligenze. E tra queste lande la cosa non ti sorprenderebbe poi tanto. E infine loro. Le moto. Che nell’ovest sono Harley. In tre giorni non ne ho viste altre. Loro, velocità moderata, alla guida lo standard sono maschi con la coda, la bandana in testa, che qui il casco si vede non si usa, giubbotto smanicato di pelle, pizzetto o almeno baffi, pancetta o panciona, che l’harleysta magro non esiste, e sigaro o sigaretta in bocca. Tranquilli, rilassati. Che faresti subito l’autostop per farti caricare da tipi così, sanno di west e di libertà, sono lo specchio della calma degli indiani e della creatività di queste lande. Sì, senza dubbio, con una Harley get your kicks on Route 66.

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July 4th

Indipendence day, il 4 luglio, a New York. Già a pensarci ti viene la pelle d’oca. La festività per eccellenza per gli americani nella città che ne è il simbolo, ancora di più dopo l’11 settembre. E quando esci al mattino per una passeggiata tra Soho e il Greenwich Village cominci a farti un’idea più precisa del nazionalismo americano. Bandiere ovunque, di tutte le dimensioni, molte di più di quelle che già solitamente colorano ogni strada degli States, palloncini, girandole. Stelle e strisce soprattutto sui vestiti, dal discreto fazzoletto alla maglietta d’ordinanza, fino a total look degni di nota, occhiale rosso e blu, maglietta, pantaloni, scarpe, un tutt’uno che risalta particolarmente nei meno giovani, che sono però i più convinti. Il trionfo del kitsch, dell’americanata, che oggi è perfetta, ci piace un sacco. Times Square è ovviamente il fulcro di tutto questo, con delle signorine che manifestano il loro patriottismo con un body painting che lascia davvero poco all’immaginazione, e per un attimo sembra il Carnevale di Rio, dato il lato B perizomato di tutto rispetto. Ma la vera festa inizia nel tardo pomeriggio, una fiumana di migliaia di persone che si radunano sulle coste dell’East River ad aspettare lo spettacolo pirotecnico che ogni anno Macy’s offre alla città. Pakistani, Cinesi, afroamericani, latini, solo per citarne alcuni, in realtà c’é davvero tutto il mondo sulle rive di Manhattan, Long Island e Brooklyn, tutto il mondo con le sue peculiarità e un inglese che ha mille inflessioni e che rende americani anche noi, quattro turisti italiani che per una sera vogliono sentirsi parte dell’American Proud. A vigilare, dirigere, indicare, organizzare sono i Policemen di New York, centinaia, cicca in bocca, mani sui fianchi, un po’ di pancetta, sorriso ma non troppo, del tipo siamo qui per far festa ma vedi di fare quello che dico, un cordone blu che sembra non finire e che tutto sommato ti dà sicurezza. Nell’attesa ovviamente faccio amicizia con tutto il vicinato, e trovo uno che è appena stato a Florence, a Rome, a Montepulciani, un altro che ha il fratello che lavora a Milano, l’altro a Roma, una volta erano loro lo zio d’America, adesso noi siamo la nonna d’Italia, aggiungi un posto a tavola che ce n’è per tutti. Nell’attesa qualcuno intona l’inno americano ed è brivido collettivo. E poi i fuochi. Tanti, esagerati, colorati, rumorosi, che si riflettono nei grattacieli sul fiume, intrecciando ricami sorprendenti tra le urla di una folla che non aspetta altro che applaudire. A bocca aperta. Amazing.

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