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Festa dell’Oca 

Ci siamo. Festa dell’Oca. Che non è il nome esatto ma per noi mortaresi è la festa dell’Oca. Un fine settimana di musica, gastronomia, mostre, rievocazione storica. La città che si riempie a dismisura e ci sembra di essere caput mundi. Anche se della gente che viene da fuori poco ci importa. Bello passeggiare e incontrare amici, parenti, compagni di scuola che da anni non vedevi, una carambata dopo l’altra che ci fa sentire più giovani. O più vecchi. Dipende se siete pessimisti o ottimisti. La festa dell’Oca é bella. Punto. Ve lo dice una che con Mortara è sempre in guerra. Ma questi giorni sono la nostra tradizione, essenza, forza. Al bando tutti quelli che fanno gli smorbi, no noi andiamo via, troppa confusione, sempre la stessa roba, che stufa le oche, che rumore, non si trova posteggio. Sì al bando e, lasciatevelo dire, non capite niente. Voi, che non partecipate ai tri pas e poi andate alla notte bianca del comune a fianco, voi che fate i superiori davanti alle bancarelle di salame d’oca e poi andate a mangiare le caldarroste vendute dal pakistano in piazza duomo a Milano, ecco voi vi meritate le domeniche pomeriggio buie e nebbiose, voi i negozi chiusi e le strade deserte che tanto denigrate. Noi un bel panino col salame d’oca, ciccioli a fiumi e gli sbandieratori a lasciarci a bocca aperta. 

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Femmes

Le donne somatizzano. Anche gli uomini, forse. Le donne di sicuro. E se fanno parte della categoria va sempre tutto bene ancor di più. Le riconoscete perché sono sempre di ottimo umore eppure nella borsa hanno una farmacia. A meno che non siano i rari casi mi faccio scivolare tutto addosso, ma quelle ci sono antipatiche di base. Che poi, secondo me, non ci sono, ci fanno. E per quanto ostentino sicurezza, le donne accusano il colpo. Di un’emozione, di un dolore, di una sfiga. E lo fanno con colite, gastrite, cistite, dermatite, tutte ste menate in ite, a cui aggiungiamo anche l’orchite visto che ormai va di moda definirci donne con le palle. La solita fregatura maschilista per affibbiarti più oneri possibili. E noi che ce la tiriamo anche. Riguardatevi il fantastico monologo di Gep nella Grande Bellezza e imparatelo a memoria. Somatizzanti frughiamo nella borsa alla ricerca della chimica che risolve. Si perché siamo tutte vegane, bio, la quinoa e il tofu, e poi senza pastigliette non ce la facciamo. Che per essere in tono hanno nomi francesizzanti, aulin, monuril, furadantin, spasmomen, che nella pochette con il soin per le visage ti illudono che poi sarai più charmant. Anche se dopo averle prese siamo rimbambite, ricoglionite, sempre in ite insomma. E allora mi chiedo, non sarebbe più facile buttare fuori invece che tenere dentro? Esplodere invece che implodere? Certo, lo sarebbe. Ma non saremmo donne. Pardon, Femmes…

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Pensando

A cosa stai pensando? Sto pensando che l’estate é finita, che é stata lunga e calda, e che non ci rassegneremo mai alla poesia dell’autunno, perché alla malinconia preferiamo la gioia abbagliante. Sto pensando che io vorrei vivere in quest’epoca e in quest’ora, magari su una spiaggia con qualcuno a farmi aria, e che per fortuna non ho mai avuto velleità da miss, così mi sono risparmiata risposte sceme a domande idiote. Che tanto lo sapete che non ce la fanno, ma fategliele prima no? Sto pensando che mio figlio che suona il flauto nella stanza accanto è la mia punizione per tutto il tempo che passo a chattare invece che preparare manicaretti per lui. E che, dopo due settimane di scuola media, è già un adolescente spietato che ti guarda con aria da sufficienza mentre tu ti senti figa davanti allo specchio con i tacchi nuovi. Lo stesso che probabilmente pensano certi ventenni a cui noi quarantenni testarde vorremmo ancora piacere. Troppa fatica, minimo risultato. Meglio pancette capelli brizzolati e il colpo della strega del giorno dopo. Sto pensando che ho preso un giorno di ferie per stirare, sistemare casa, dedicarmi all’economia domestica. E che non ho ancora fatto niente di tutto questo. L’economia non la capisco, quella domestica ancora meno, e sto pensando che ho buttato un giorno di ferie cercando ancora una volta di essere quella che non sono. Una massaia. Lacolli massaia. Stona più di mio figlio col flauto. Sto pensando che però non è stato male salutare l’estate volando tra pensieri e poesie, gustando il piacere di un caffè, regalandomi qualche ora di pace, tenendo fuori il mondo. Che le ferie vere sono in fondo queste, otium allo stato puro. E che infine ho scritto questo post per rileggerlo domani sera dopo una giornata incasinata, quando guarderò la pila della roba da stirare e il romanticismo poetico di oggi si trasformerà in litania incazzata del coccodrillo svogliato. 

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Notte

Notte di metà settembre. Così romantica che ricorda il testo di una canzone. O un’opera shakespeariana. Eppure ti giri e ti rigiri nel letto e questo di romantico ha ben poco. Sarà stato l’aperitivo, un colpo d’aria, fatto sta che la testa gira ma il sonno non arriva. A fianco a te un nano di un metro e quaranta che collabora alla tua veglia tempestandoti di calci. Si perché io sono l’invidia di tutte le donne, ho sempre un essere di sesso maschile nel letto, anche quando il mio lui è via. A maggior ragione. Il papi è via, si va nel lettone. E la mamma veglia, come la dea del focolare domestico. Alla quale in modo poco divino, però, dopo un po’ parte un nervoso che più che una dea si sente la Gorgone e vorrebbe impietrirlo. Alla fine mi alzo. Provo ad andare nel suo letto. Sembra funzionare, mi assopisco e faccio uno di quegli incubi da analisi freudiana a vita. Di quelli che ti svegli tutta sudata senza sapere perché. Ma questa è una canzone di Vasco e qui di vita spericolata c’è ben poco. Alle due di un sabato notte di metà settembre, seduta nel letto, decidi di alzarti. Che tanto non vale la pena. Cerchi le ciabatte. Sì le ciabatte, perché alle due di notte se non dormi ti viene addosso un freddo boia. E da legge di Murphy ne trovi una. La cerchi sotto al letto, in bagno, nel corridoio, niente. Il dramma che non l’ho ancora trovata alle dieci del mattino. A volte succede. Pufff scompaiono gli oggetti. E poi li ritrovi nei posti più impensabili. Come le mollette nel frigo, l’orologio tra i cd, le calze in tasca al cappotto. E pure l’intimo dato per perso e ritrovato l’anno dopo al cambio armadi sul fondo di una borsa. E vi giuro che non ho idea di come sia finito lì. Comunque mi alzo senza ciabatte, piedi freddi, e giro come uno zombie per casa. Che fai alle due del mattino? Il cervello funziona male a quell’ora. Cucinare? Mi viene la nausea all’idea. Mestieri? Non sto in piedi. Inciampo pure nel tappeto e vado a sbattere contro lo spigolo del tavolo. Fumetto con fulmini e saette. Decido di leggere. E mi viene sonno. Dieci minuti dopo, però, ancora sveglia. E allora inizi a pensare. E lacolli pensante alle tre del mattino è uno dei danni maggiori. Più del buco dell’Ozono o dell’inquinamento dei fiumi, più della puzza dei fanghi Lomellini e della D’Urso alla domenica pomeriggio. Si perché alle tre del mattino lacolli diventa Gollum e si sente vittima della società e scrive le cavolate che poi leggete voi. E più si gollumizza e più si sveglia e da pasionaria è pronta alla rivoluzione. Alle cinque decido di farmi una tazzurella di caffè, aspetto l’alba, sul balcone, un freddo pazzesco altroché brezza di metà settembre. Ma ormai la notte è andata. Alle sei mi appallottolo a fianco al terrorista nel mio letto, che mi dice “Mamma, ma come sei venuta a letto tardi…” E a quel punto pensi che quei nove mesi avresti potuto spenderli diversamente, che sommando il costo di pannolini, passeggino e amenità varie avresti potuto fare il giro del mondo in quei nove mesi. E stanotte dormire. Nel tuo letto. E non è finita. Alla fine ce la fai. Morfeo si ricorda di te. Passa un’ora e lui chiama. Domenica mattina alle otto. Chiama e insiste. Il telefono nell’altra stanza. “Ti ho svegliata?” Dice con voce suadente. E a quel punto, il giro del mondo cominci a programmarlo. Sì. Da sola. Camera singola. Letto da mezza piazza….

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Upset

Lacolli è il tipo di donna che si incazza. E non uso il turpiloquio a vanvera. Lacolli non si arrabbia, non è per il muso prolungato o la seccatura di bassa lega. Lei si incazza alla grande. Si perché per portarla a livello ce ne vuole. O almeno questo é quello che dice lei. Millanta pazienza e tolleranza, sorrisi e disponibilità, eppure per farla passare da peace and love a Hiroshima basta davvero poco. Per cui non fidatevi del viso sempre aperto e cordiale, delle maniere velatamente dolci, provate anche solo ad annullare un appuntamento e avrete davanti un chiaro esempio di quarantenne nevrotica. Senza mezzi termini. Si perché quando sei giovane tieni dentro, timorosa, temi di sbagliare. A quaranta no. Ferma della tua esperienza di donna madre moglie, magari pure col tacco che stamattina fa un male boia in punta, basta un nulla e parti all’attacco. Sempre con ironia ovviamente, così i più manco capiscono, ma sbotti. E chi c’è c’è. Marito madre figli colleghi, che se poi ti danno della mestruata un po’ di ragione ce l’hanno. Ma tu non tieni dentro più nulla, neppure il vaffa a quello che ti passa davanti in posta o a quello che per l’ennesima volta non risponde ai tuoi messaggi. Se capiti in giornata giusta, preparati al l’uragano Kathrina, rapido veloce ma devastante. Perché dico questo? Perché è così. Passa veloce ma chi si trova in mezzo fa la permanente. E pace se gli piaceva di più la piega liscia. Lacolli si incazza. E adesso non dite che non eravate stati avvisati…

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Giallo e verde

E poi, in un tramonto qualunque di metà settembre, mentre il cielo ha deciso di dire la sua ed è di un blugrigionero che non riesci a definire, ti scopri innamorata di questa terra. Questa terra che hai sempre voluto lasciare e che ti ha tenuto legata a sè come un amante geloso, questa terra fatta di acqua, umida e nebbiosa, che d’estate specchia le montagne e d’autunno si immerge nella nebbia degli antichi cavalieri. Questa terra che questa sera si estendeva dalle Alpi del rosa agli Appennini laggiù, in alto il cielo tempestoso, sotto i campi gialli e verdi, ma di un giallo giallo e di un verde verde, che non lo trovi neanche nella confezione da 36 dei pastelli Giotto. Questa terra che profuma di terra, e non è una rindondanza, profuma di terra che anela la pioggia, e nelle giornate calde d’estate profuma di afa e zanzare, e nella nebbia che bagna i capelli il viso l’anima, profuma di nebbia, che è acqua, vapore, freddo ma non troppo, erba bagnata, un eau de toilette che nessuno potrebbe mai riprodurre ma che non ti togli di dosso. E in fondo ti piace. Perché è la tua e tu sei sua. E sai che ovunque tu vada, per quanto la rinneghi e la allontani, non ci sarà mai paesaggio alba o tramonto che tu senta tuo come quello di stasera. Coi lampi a squarciare il cielo. E la terra lí, immobile, ad aspettare. E il vento che soffia e stacca le prime foglie di un grosso platano…

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Seven

Seven.

Avarizia. Di denaro. Ma quella conta poco, non spendi, accumuli, saranno ben fatti tuoi. Sono gli avari di sentimenti a dilagare, gli egoisti e gli incapaci di un brivido. Quelli che non sanno vivere il bordo vertiginoso delle cose.Superbia. Facebook, Instagram, what else? Un’overdose di ego. E poi ci parli e non ce n’è uno che si piace. Che capire chi ci fa e chi ci è diventa sempre più difficile.

Ira. Sempre tutti incazzati. In posta fai la coda, e la gente reclama, in auto, rischi la vita se non parti quando il semaforo accenna il verde, la crisi e i musi lunghi. Sempre più notizie di gente in preda a raptus, che la pazienza è figlia dell’altruismo e qui invece egoismo a manetta.

Gola. Ci piace mangiare e bere. Degustare però. Non divorare. Materialmente ma soprattutto emotivamente. Non emozioni in overdose ma un distillato continuo e soffuso di piaceri quotidiani. Ma si sa, il tutto subito é meglio del poco con calma.

Lussuria. Sesso e basta. Facile scontato stonato. Niente poesia, quella è noiosa. Niente sussurri e brividi dolci, perdi tempo. Obiettivo chiaro e diretto come prima più di prima, da ambo i sessi.

Accidia. Che non ho mai ben capito cosa sia. Ma in fondo é il vizio più diffuso. Essere inconcludenti, arrendevoli. Famiglie intere ce ne sono. Va bè la crisi, ma quando ci decidiamo a reagire?

Invidia. Si salvi chi può. Se sgobbi e hai successo ti invidiano, se sei in forma ti invidiano, se hai una famiglia ti invidiano, se sei single e hai relazioni ti invidiano. Sempre e comunque farsi i fatti degli altri. La sorte altrui come metro del proprio vivere. Mai visto nulla di più stupido. Mai ritenuto nulla più inutile e difficilmente comprensibile al mio pensare. Invidiatemi, sì, perché non invidio niente e nessuno.

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Avrei voluto 

Avrei voluto i capelli lisci e sono una riccia senza speranza. Avrei voluto essere alta e sono tascabile. Avrei voluto avere le tette e la mia seconda scarsa deve tutto a sant’Intimissimi. Avrei voluto essere intonata e rovinerei la hit del secolo alla prima nota. Avrei voluto farmi scivolare i problemi addosso e sono capace di arrovellarmi giorni su un aggettivo o una parola pronunciata con un tono diverso. Avrei voluto essere l’amica che tutti cercano e se non scrivo o chiamo il telefono rimane muto per giorni. Avrei voluto essere indipendente ed egoista e non so stare da sola. Avrei voluto avrei voluto avrei voluto. Come tutti in fondo. Passiamo la vita a cercare di essere altro senza renderci conto di quanto sia fantastico accettarci, così, semplicemente. Finché arriva presto o tardi il momento in cui, guardandoti allo specchio, ti vedi, e ti vai bene. Così. Riccia bassa piatta insicura sensibile testarda. E ti senti incredibilmente bella. E leggera. Come il cielo azzurro di oggi ripulito dall’aria sottile di settembre. 

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