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Rosa 

Violenza sulle donne. Se ne parlava due sere fa in una Gasthöf davanti a costolette di maiale e birra come se non ci fosse un domani. Perché quando sei rilassato affronti meglio anche discorsi davvero spinosi. E retorici, molto retorici. Noi donne sismo state nel passato una classe di serie B. I greci non permettevano che le donne uscissero di casa sole, sempre accompagnate da una ancella e per brevi tratti. Quelle di alto rango si trovavano nei Ginecei, e il teatro greco metteva in scena tutta la paura che l’uomo aveva della donna, così magicamente capace di procreare. I romani lo stesso, le donne emancipate erano prostitute o attrici, equiparate alle prime, insomma quello che non vorremmo sentirci dire di essere. Gesù Cristo incontra nel Vangelo solo donne che sono già state sposate, prostitute, donne fuori dai canoni, perché alle altre non era permesso aggirarsi da sole. È così via. Additate come streghe e bruciate sul rogo, colpevoli solo di voler affermare il proprio io, costrette ai lavori più umili, sottopagate, violentate nel silenzio delle mura domestiche. Pensate un po’ alle donne che la storia ricorda, tutte fuori dai canoni: Teodora, ex attrice di dubbia fama, Giovanna D’Arco, che oggi sarebbe sempre in analisi psichiatrica, Ermengarda, poverina cornuta e abbandonata da quel figo di Carlo Magno, Maria Antonietta, che per colpa delle brioche ha perso la testa, fosse vissuta oggi avrebbe seguito la macrobiotica e buon per lei, Charlotte Corday che uccide Marat in una vasca da bagno e viene ritratta sempre molto stettata, prima che anche a lei taglino la testa. Ah voi mi direte, ma Anita Garibaldi? Ecco quelle sono le donne uomo, quelle con le palle, come Teresa d’Austria, la Regina Vittoria, basta guardare i ritratti per capire che di femminile avevano solo il nome. E poi vabè c’è lei, la principessa Sissi, che non aveva le palle delle suddette ma era imperatrice e si faceva quel gran gnoccolone del conte di Andrassy. Quelle sono quelle che hanno ispirato le femministe e tutti i movimenti che ci hanno portato ad oggi. In cui la donna sulla carta è come gli uomini. Anzi meglio. Non ci sono le quote azzurre in parlamento (al massimo le pastigliette blu data l’età media), ma quelle rosa. Una tutela. Esterna. Politica. Di comodo. Perché agli uomini non ie piace sta storia. Che la donna col grembiule che ramazza e aspetta paziente ie piaceva di più. E allora sbroccano. Quelli violenti con le mani, quelli codardi con il terrore psicologico. E qui le quote rosa non ci sono. Qui nessuno ascolta. Qui nessuno educa a sufficienza i nostri bimbi al rispetto per l’altro. Noi lo dobbiamo fare in casa. Ma lo stato lo deve imporre. Perché non é più scontato. E su questo non si può transigere. Sempre. Comunque. Rosa azzurro o del colore che vi piace.

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Dachau

Arrivo a Dachau la mattina presto, su un treno silenzioso, composto, un treno per Dachau. Inutile negare che la suggestione è forte. Non si può visitare un luogo così simbolico senza far riemergere tutto quanto studiato a scuola, letto, visto sullo schermo. Ma ci provo. All’ingresso solo io, apro il cancello su cui svetta Arbeit macht frei in una giornata tersa e fredda, il fumo che esce dalle labbra, il corpo stretto nel piumino, le mani intirizzite mentre premo i tasti dell’audioguida. Freddo fuori e freddo dentro, su questo enorme piazzale che la mente popola di migliaia di persone, che qui hanno perso tutto, in primis la dignità di uomini. E poi le baracche, le torrette, il filo spinato. E i forni. Ed é qui che anche la dura colli cede. Non per il pensiero dell’eccidio. Non per le mille suggestioni. Non perché la cattiveria umana, nostra, cristiana, occidentale, immotivata, non di una cultura diversa come nei proclami delle ultime settimane, non perché questa cattiveria mi fa in fondo molta paura. No. Perché quando davanti ai forni aperti, a fianco alle camere a gas, nel silenzio totale, vedo arrivare una coppia tedesca, lui togliersi il maglione e mettersi in posa per la foto con la maglietta del Bayern che mette in evidenza una pancia considerevole, braccia aperte e pollice in alto, sorridente, lì davanti ai forni crematori, ecco in quel momento capisco che non impareremo mai. Che questa é la sintesi della stupidità del mondo odierno. Che adesso canta la marsigliese e sventola bandiere francesi, che posta frasi di sdegno, e che tra due giorni non si ricorderà più di nulla. Questo é il nostro filo spinato, l’incapacità di fare della storia un possesso per sempre, come diceva Tucidide, un memento per non errare di nuovo. E, scusate, tutto questo è davvero molto triste….

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Siii viaggiare…

Viaggiare è fantastico. Vedere, conoscere, sperimentare, confrontarsi con culture diverse, mettersi un po’ alla prova in ambiti diversi dal proprio. E poi in un viaggio di piacere ti senti coccolato. Speciale e chic. E non devi viaggiare cinque stelle. Basta fare attenzione ai particolari. Il sorriso delle hostess e degli stuart e la loro gentilezza anche quando devono sistemarti nella stiva sopra ai sedili un trolley dal peso specifico di un auto. E anche quando gli chiedi con dolcezza di tirartelo un attimo giù di nuovo perché hai dimenticato di tirare fuori il libro da leggere in volo. Il tovagliolino e il bicchiere di caffè, il caffè fa schifo e lo paghi due euro e cinquanta ma berlo lasciando la scia nel cielo che si rischiara all’alba allarga il sorriso. I cioccolatini sul tavolino della camera d’albergo. E le ciabattine lo shampoo la cremina la penna il block notes. Oggi poi la sciccheria è stato l’interruttore delle tapparelle di fianco al letto: allunghi la mano pigra e su giù in un attimo. Inutile dire che l’ho quasi impallato su giù su giù, il giochino del giorno. E poi la doccia calda calda, ore sotto senza preoccuparsi di chi verrà dopo e del boiler che si svuota. Dovresti ricordarti di non sprecare acqua ma in fondo sei in vacanza no? E gli asciugamani grandi spessi e bianchi. E il tempo, rallentato e dilatato, perché devi pensare solo a te stessa e questo è il lusso dei lussi. Godiamocelo allora…

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Trolley

Partenza per Monaco. Di Baviera. Che il Principato c’est tres chic ma Munich ist kühlen, ovvero very cool. E allora all’alba di un lunedì di novembre si parte. Trolley coordinato con lo smalto, perché é dai particolari che si vede una donna, piccoli dettagli che fanno la differenza. Ecco una donna. Non sai come ma hai compattato tutto. Razzia di ogni campioncino di creme e cremine, il minimo indispensabile per tre giorni che è quasi una settimana, ma ci é stato tutto. Controllo bagagli. Lui anfibi cintura taglio militare passa senza una piega. Potrebbe avere un macete addosso che la signorina della security lo farebbe passare lo stesso magari offrendogli anche un caffè. Poi si volta e ti guarda. Ti fa aprire il tuo lucidissimo trolley e ci manca che si prenda un po’ di rossetto, così per ravvivarsi prima di andare a prendere il caffè con tuo marito. Poi ti fa togliere quelli che lei chiama scarponi. Gioia sono Timberland fighissime per favore. Usiamo l’italiano con proprietà di termini. Li togli e per ripicca li posi così sul rullo, disdegnando i sacchetti di plastica che ti porge per infilarci i piedi, sono i miei piedi mica la verdura del supermercato. E così finisce che una timberland si incastra nel rullo e ie blocca er traffico. Tesoro mi sa che invece di andare a bere il caffè ti tocca sistemare il rullo. Eh già. Tolgo cintura maglione orologio e varie, la prossima volta mi metto in intimo direttamente così aiuto il risveglio di quelli in coda. Non fraintendete, sono favorevolissima ai controlli, solo che si vede che non ho un viso affidabile. Accanimento regolare ad ogni viaggio, dal body scanner alla spogliazione, vuoi vedere che sta biondina nasconde qualcosa? Comunque, passata anche stavolta. In coda sulla scala in discesa per raggiungere l’aereo, mi distraggo un attimo e il mio trolley prende in pieno la caviglia del signore davanti. Gli faccio un male pazzesco come quando ti arriva il carrello del supermercato nelle caviglie lanciato da qualche simpatico bambino, ma lui non reagisce. Sarà tedesco. Bionico. Oppure solo molto signore. Intanto tuo marito ti guarda e con il suo rassegnato aplomb ti dice “Colli hai già dato e non siamo ancora partiti”….

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Cassa

In coda alla cassa di un negozio di abiti in un centro commerciale. Abbigliamento da uomo. Che già non ti piace stare lì perché non ne vedi l’utilità. Tanto è matematico che se gli dici che sta bene con il blu prende il rosso, che se gli dici mille righe sarà tinta unita. Sì perché l’uomo é autoreferenziale. Se gli chiedi cosa mi metto davanti all’armadio, e glielo chiedi tutte le volte, un po’ perché non lo sai davvero un po’ perché vuoi farti dire di mettere quello che hai già pensato, ecco tutte le volte lui ti risponde dicendo quello che indosserà lui. Che non te ne po’ fregá de meno. Tanto sta sempre bene. Tanto alla fine gira e rigira pantaloni e camicia. E poi tanto fa quello che vuole. Quindi alla cassa già pensi che saresti potuta entrare nel negozio di scarpe più avanti e ottimizzare. Anche perché, se il tuo consiglio non lo ascolta, non manca di fare il cascamorto con tutte le commesse. Belle brutte giovani attempate, fa le battutine, il giochino ma quanti anni mi dai? E sì sono ancora un ragazzino. Mi sento vent’anni. E tu lo guardi schifata ma lui imperterrito. Arrischia sempre un mia moglie mi tiene giovane, mi fa correre. Che l’associazione a delinquere anche no grazie. Quindi alla cassa già sei a livello, vuoi che non faccia la battuta con la cassiera tettona? Con te che la guardi e, in nome della solidarietà femminile, chiedi pietà. Che é solo l’inizio. Che non era così, anzi. Che è vero che è giovanile, ma se lo facessi tu ti avrebbe già appeso al muro del camerino. Un destino da badanti, mie care, altroché.

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Senza pelle

Ei tu. Sì ce l’ho con te. Tu che ti nascondi dietro il tuo sorriso e il trucco perfetto. E tu che fai battute a tutti e che dici che va sempre tutto bene. Tu che sei la spalla degli amici, quello da invitare perché mette di buon umore, perché ascolta e non fa menate. Tu che non hai problemi perché sai farteli scivolare addosso, tu che non chiedi mai perché sei sempre troppo impegnata a dare agli altri e perché ti hanno insegnato che bisogna cavarsela da soli, sempre. Tu che poi piangi sotto la doccia e la notte prima di dormire, perché in quel momento ti senti nuda e nessun messaggio ti salva. Nessuna telefonata. Perché tu sei tosto e non ne hai bisogno. Tu sei duro e ti risolvi da solo. Tu sei orgogliosa e aspetti senza chiedere. Ecco dico a voi. Urlate il vostro bisogno. Chiedete aiuto. Siate deboli. Violentate anni di costruzione di un muro e abbattetelo come quello di Berlino. Mostrate che siete senza pelle sotto l’armatura. Altrimenti le vostre lacrime saranno inutili e la vostra maschera l’inganno di una negazione che vi consumerà nel profondo. 

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La zia Rina

Caterina Bonacasa è stata un’artista originale e unica. La zia Rina una persona eclettica e singolare. Sicuramente un vulcano di idee, ricordi, esperienze, nozioni. Ecco cosa avevamo scritto insieme per il Vaglio nel 2009 ricordando il clima di Brera nel secondo dopoguerra. È così che mi piace ricordarla… 

“Quando si è anziani, si accendono a lampi i ricordi del tempo passato, visioni lontane di noi stessi e di altri, di fatti e di emozioni, che in certi momenti giungono alla mente in modo chiaro. Essi prendono forma e rivivono, anche se hanno perso la loro freschezza.

E così, a tratti, si affacciano alla mente gli anni trascorsi come allieva dell’accademia di Brera, anni speciali perché a ridosso di un evento terribile coma la Seconda Guerra Mondiale, perché ricchi di stimoli artistici e culturali, perché fondamentali per la società contemporanea.

La mia avventura artistica doveva svolgersi in una metropoli come Milano, in un mondo strano, dove ebbi modo di incontrare personalità famose o che lo sarebbero presto di ventate.

Allora, in Lombardia, l’unico Liceo Artistico Statale era quello di Brera. Per essere ammessi era necessario superare tre prove: copia pittorica dal vero, decorazione e geometria. Per ogni prova si avevano a disposizione otto ore consecutive, non si poteva uscire, si portavano da casa due panini che si consumavano mentre si dipingeva. Le domande inoltrate subito dopo la guerra furono 110, per soli 30 posti disponibili; fortunatamente, nonostante fossi priva di raccomandazioni (purtroppo molto importanti in quel periodo e in quel contesto), venni scelta per formare la prima classe liceale del dopoguerra. Brera era allora il centro culturale e artistico della Lombardia, molto quotato per i famosi nomi che dirigevano le quattro facoltà: le due scuole di scultura erano dirette da Marino Marini e da Francesco Messina, assistiti da altre personalità famose, tra cui ricordo Enrico Manfrini; le due scuole di decorazione erano dirette da Giacomo Manzù e da Achille Funi; quella di pittura da Aldo Carpi, mentre non ricordo il nominativo del direttore di scenografia.

L’antico palazzo barocco, fatto costruire dai Gesuiti nel 1600 sull’area del vecchio convento degli Umiliati era sede del Liceo e dell’Accademia di Belle Arti, della Biblioteca Nazionale Braidense, dell’osservatorio astronomico e della Pinacoteca. Le aule del Liceo e la scuola di scenografia erano collocate sotto tre lati del porticato del cortile d’ingresso, ove risiede la statua bronzea di Napoleone Bonaparte del Canova. Altri cortili, come quello detto di anatomia, di scienze e dell’osservatorio astronomico erano pieni di ruderi, prodotti dai recenti bombardamenti. Per liberare i cortili di queste macerie, ci vollero alcuni mesi, come pure per scaricare le opere pittoriche della pinacoteca, che erano state imballate e portate al sicuro. La prima metà dell’anno scolastico fu così disturbata da operai e camion, che andavano e venivano per riordinare tutto il palazzo. D’altra parte tutta la città di Milano era ancora invasa da macerie di palazzi crollati e non era raro incontrare anche soldati di origini lontane, come quelli indiani, che si trovavano a frequentare l’accademia per qualche mese.

L’impatto con il nuovo ambiente fu forte: improvvisamente mi ritrovai in un mondo molto diverso da quello rurale della lomellina, benchè ci fossero pochi chilometri di distanza. Molto importante era allora l’ideologia politica: dopo il 25 aprile, le piazze erano invase da comizi di cittadini che parteggiavano per varie correnti, si stavano preparando le elezioni per formare il primo governo repubblicano italiano e bisognava lottare perché non si formasse un’altra dittatura. Stalin aveva mandato i suoi adepti in Italia a propagandare la dottrina bolscevica, che nascondeva una dittatura violenta sotto un presunto benessere. Naturalmente anche Brera era attraversata da questo fermento politico: l’assolutismo ed esclusivismo sociale di Marx spinse gli artisti ad impugnare queste armi per imporre una nuova arte che fosse all’avanguardia. Si usavano metodi polemici e scandalosi, schernendo e diffamando chi aveva opinioni differenti, cercando di allontanare i docenti contrari alla politica marxista, come per esempio Francesco Messina, credente e devoto di Padre Pio. Anch’io fui vittima di professori, perché portavo il distintivo dell’azione cattolica sul bavero della giacca e non ero quindi in linea con le loro convinzioni politiche. Il professore Guido Ballo, per esempio, che insegnava storia dell’arte, mentre mi interrogava di fronte a tutta la scolaresca proclamò la sua antipatia nei miei confronti perché insistevo a portare quell’emblema religioso.

Spesso a Brera si scioperava senza un vero motivo, era quasi di moda questo atteggiamento, e gli alunni, specialmente i più giovani, erano disorientati, privi di serenità e di sicurezza, frastornati dalla propaganda del nuovo corso. I giovani artisti di Brera proclamavano elementi nuovi per un’era artistica moderna e intanto creavano il caos con gli scioperi. Erano sempre gli allievi dell’accademia a coinvolgere i più giovani del liceo, poiché si lavorava tutti nello stesso palazzo e si agiva così come un’unica famiglia. Durante gli scioperi, si oziava ai giardini pubblici o al parco del Castello Sforzesco, ove si familiarizzava con gli studenti di varie università milanesi. Durante il primo anno di liceo, in una mattinata di sospensione delle lezioni, conobbi al parco un poeta che insegnava all’università: era piccolo e brutto, firmava le sue poesie con lo pseudonimo “Marcus”. Era molto sicuro di sé per le sue capacità intellettive e per la sua eleganza nel vestire: mi dedicava continue poesie, ma non volle mai lasciarmene una, se non in cambio del suo affetto. Non l’ho più rivisto: sono ricordi lontani, foglie morte che rinnovo dalla polvere che le copre e che cerco di non calpestare per non romperne l’incanto.

In quell’ambiente strano e caratteristico dell’arte figurativa dell’Accademia di Belle Arti mi trovai tra personalità interessanti, spontanee e quasi familiari. Giovani con idee balzane, stravaganti ma che avevano in sé quella semplicità e vigoria spirituale che fiammeggiava come brace sotto la cenere. Quell’ambiente mi piaceva e valeva la pena viverci dentro, anche se la politica era per me un fardello pesante e inutile in ambiente in cui l’espressione artistica in sé avrebbe dovuto dominare. Vi erano infatti professori influenti, che proclamavano scioperi e richiedevano a noi studenti di liceo firme per allontanare i docenti che non aderivano al partito comunista. Ma vi erano anche vari giovani all’avanguardia, come Gianni Dova e Roberto Crippa, che esponevano le loro opere (o presunte tali) in un salone del bar di Brera, che si trovava a pochi passi dal nostro edificio, in via Fiori Oscuri, ove si trovava anche la latteria Pirovini, luogo del nostro pranzo frugale. Con il tempo anche questi due ambienti sono divenuti famosi, per il legami acquisito con professori e allievi di Brera, e anch’essi fanno parte della storia artistica iniziata proprio con noi allievi di Brera nell’immediato dopoguerra. Molte opere esposte nel salone del bar e acquistate a poco prezzo, sono state nel tempo rivalutate e, essendosi affermati gli autori, vendute a costi davvero alti.

Ho accennato alla latteria Pirovini, luogo che si riaffaccia alla mia memoria quando ripenso a quegli anni giovanili. Si trattava di una latteria diretta da due sorelle nubili, che preparavano un piatti di minestra per gli studenti di Brera che provenivano da fuori Milano. L’ambiente era insufficiente a contenere sedie e tavolini per tutti, per cui si sedeva chi prima arrivava, mentre gli altri consumavano il cibo in piedi. Il primo giorno in cui feci parte del gruppo che si recava da Pirovini mi trovai molto a disagio, giravo con il piatto di minestra fumante in cerca di una sedia, sperando che qualche giovanotto dell’accademia mi cedesse il suo posto. Ma la cavalleria in quei casi non esisteva, per cui mi fu detto di andare a sedermi in una stanzetta che era tre gradini più bassa di quella dell’atrio. Mi recai in quella stanza con il piatto in mano, attenta a non rovesciarne il contenuto, e fui sorpresa nel trovare dei signori che mangiavano intorno a un tavolo: quando mi videro, mi fecero accomodare tra di loro e, divertiti, mi rivolsero varie domande, cercando di mettermi a mio agio. Io ero imbarazzata: in pochi istanti trangugiai quel cibo e mi alzai per andarmene, avendo capito che erano professori, e non studenti dell’accademia. Il signore che era al mio fianco mi fermò e mi mise nel piatto delle patatine e un pezzetto di carne: io ero in imbarazzo, ma la cordialità e la solidarietà cameratesca di quei docenti mi convinsero a restare tra di loro. Quando mi alzai e mi allontanai ringraziando, gli altri studenti mi applaudirono per l’atto ardito con cui avevo familiarizzato con i loro professori. Capii allora che in quell’ambiente i gradi e le condizioni sociali non erano importanti, predominavano i valori affettivi, i sentimenti emotivi, la libertà di comportamento indipendentemente dall’approvazione altrui. Era l’ambiente perfetto per me, adatto alla mia originalità, al mio modo di sentire, spontaneo, semplice, umano.

Un altro ricordo legato a questa latteria emerge dal passato ogni volta che sento suonare una canzone di moda nel 1945 “Brasil”: nell’angusta latteria Provini, all’ora di pranzo, arrivava un povero vecchietto con il nipotino, che ci suonava la sua fisarmonica questa canzone. Poi il bambino girava con il piattello a cercare l’elemosina: se chiudo gli occhi rivedo quel vecchietto seduto su uno sgabello in un angolo e il bambino miseramente vestito che allungava la sua piccola mano in cerca di aiuto. E’ passato tanto tempo, ma è come fosse ieri, è come aprire una finestra per fare entrare echi lontani che prendono forma e rivivono nella nostra mente.

La classe I liceale di Brera dell’immediato dopoguerra era formata da maschi e femmine, che avevano dai quindici ai ventun anni. I maggiori di età erano provenienti da varie città lombarde e avevano sospeso gli studi durante gli anni della guerra, per evitare i bombardamenti delle metropoli. Dei miei compagni maschi ricordo quelli che frequentavo maggiormente per affinità di pensiero: Enrico Tovaglieri (futuro scenografo del film “L’albero degli zoccoli” e dei “Giochi senza frontiere”), Adelio Bianchi, Gelato Busconi e Aldo Ballo, fratello del prof. Guido Ballo. Tra le ragazze, ricordo con affetto Jolanda Amaducci di Cesena, Rina Colombo di Como, Maria Lazzarini di Crema, Brunislava Weeremenco, russa e di religione ortodossa, Ester Molo, ebrea, Gabriella Gabrielli. Di queste tre ho ricordi particolari per le loro vicende umane, durante e dopo la frequentazione di Brera. Gabriella Gabrielli era figlia dello scultore Luigi Gabrielli, che aveva eseguito il ritratto del generale Badoglio, il monumento della “Brigata Lupi” sul Sabottino e la statua di S. Bartolomeo che si trova sul transetto del duomo di Milano: era timida e aveva sofferto molto durante la guerra. Benché il padre fosse un bravo scultore, infatti, non guadagnò nulla in quegli anni difficili e la famiglia era costretta a mendicare il cibo ai mercati; anche in classe era isolata, perché era vestita miseramente e molto riservata: dopo il primo anno non la rividi più, perché aveva lasciato la scuola. Ester Molo era scampata alla tragedia degli ebrei, ma ne risentiva ancora le conseguenze, era timorosa e sempre in cerca di qualcuno che le difendesse, anche se non ne aveva reale bisogno. Nel periodo degli Azimi ci portava gustose gallette, schiacciate e croccanti, fatte con pane azzimo e condite con burro: se chiudo gli occhi sento ancora il sapore di questo cibo così particolare. Ci raccontava che, dopo il matrimonio con un cugino che era suo promesso sposo dalla nascita, si sarebbe recata a Gerusalemme, per formare il nuovo stato di Israele con tutti gli ebrei sparsi per il mondo. Io, allora, non capivo le ragioni di questi discorsi, ma con il passare del tempo mi sono più volte chiesta se Ester ancora esistesse e se continuava a soffrire per motivi politici, in quella terra senza pace che è la Palestina. Brunislava Weeremenco arrivò in classe a un mese dall’inizio delle scuole: aveva l’aspetto di una signorina matura, con viso e unghie dipinte, vita stretta da una cintura, lunghi capelli biondi, occhi leggermente a mandorla, naso all’insù e bocca ben fatta, alta di statura, insomma un bel tipo. Non parlava con nessuno, non conosceva bene la lingua italiana e colloquiava con i russi dell’accademia. Pian piano diventammo amiche e scoprii che, nonostante l’aspetto facesse intendere il contrario, era una ragazza seria ed equilibrata. Mi raccontò che si trovava in Italia perché il padre era un satellite di Stalin e lavorava come chimico in una fabbrica di Codogno, ove si occupava di propaganda comunista. Brunislava era una brava artista, aveva uno stile personale, fatto di segni scattanti e figure allungate: frequentandola, ebbi modo di conoscere anche gli allievi russi dell’accademia, che apprezzai per la loro squisita sensibilità e delicatezza.

I professori che insegnavano al liceo erano tutte personalità forti, con cui mi sono confrontata in modo diretto e molto stimolante. Domenico Cantatore era il professore di figura e aveva sposato la sua modella, una bella signora dagli occhi azzurri, che spesso lo veniva a trovare durante le lezioni. Lo rividi dopo dieci anni, quando era passato ad insegnare all’accademia e mi presentò ai suoi allievi, tra i quali vi era anche un padre francescano, Costantino Ruggeri, divenuto poi famoso, e con cui ebbi modo di lavorare per opere di arte sacra e finestre istoriate. Il professore mi mostrò allora i cartoni rappresentanti i fatti della vita di Santa Caterina, che egli stava preparando per delle finestre istoriate da collocare in una chiesa senese. Se avessi tenuto tutti gli schizzi che egli faceva sul mio foglio, cancellando le mie linee tradizionali, ora avrei in mano opere dal notevole valore, in quanto egli è stato catalogato tra gli artisti nazionali di un certo rilievo. Io non ero in sintonia con lo stile troppo moderno di Cantatore, non sapevo proseguire l’opera dopo che lui me l’aveva schizzata, per cui cercavo l’aiuto dell’altro professore, Silvio Consadori, più tradizionale e in linea con il mio stile. I docenti di Figura erano infatti due: Cantatori seguiva il primo gruppo di 15 alunni il cui cognome iniziava con le prime lettere dell’alfabeto, Consadori gli altri 15. Il mio professore, Cantatori, era geloso dei suoi alunni e non premetteva che noi chiedessimo consigli all’altro, per cui quando io avevo bisogno di Consadori, mi avvicinavo a Brunislava Weeremenco per chiedergli aiuto mentre lui guidava la sua alunna. Mi sono resa poi conto di avere più volte messo a disagio questo professore, sempre gentile e disponibile: quando venne a Mortara a dipingere la lunetta del portale della chiesa di San Lorenzo, andai a salutarlo e mi riconobbe subito, anche se erano passati circa vent’anni, e si ricordò dei sotterfugi che usavo per avere i suoi suggerimenti. Il ricordare quei tempi trascorsi nelle aule di Brera fu un vero piacere; lui si interessò a me, a come avessi trascorso quei vent’anni e mi confidò che la lunetta che stava dipingendo non gli piaceva, che la commissione vigevanese aveva scelto il bozzetto meno bello, e che non era quindi preoccupato del fatto che l’umidità dei vecchi muri l’avrebbe probabilmente distrutto. Era cosciente del fatto che nessun dipinto sarebbe vissuto a lungo su quei muri secolari e l’aveva anche comunicato a Don Calvi, il quale volle però ugualmente il dipinto. In questa sede mi consigliò di produrre opere in cotto per le lunette delle chiese medievali costruite con mattoni, mentre solamente quelle rivestite in marmo avrebbero richiesto il mosaico. Mi fu molto utile il suggerimento di Consadori quando toccò a me decorare la lunetta della chiesa di San Pietro in Martire a Vigevano, risalente al 1300. Negli anni di Brera, si diceva che Consadori fosse il prediletto del cardinal Montini, il quale gli ordinava opere sacre: non so se sia vero, ma proprio grazie a lui e a Manfrini ebbi modo di conoscere il futuro papa Paolo VI ed essere introdotta tra gli artisti di arte sacra.

Dopo aver consumato il frugale pasto da Provini si ritornava a Brera in attesa delle lezioni pomeridiane. Come passatempo si girava nei bui corridoi del vecchio edificio, si osservavano le statue erette su alti piedistalli che ornavano i corridoi, si andava nel reparto scenografico, che era sempre aperto. Alcuni professori, che arrivavano da fuori Milano restavano nei loro studi durante le ore del pranzo, in attesa delle lezioni: tra questi vi era il titolare di decorazione plastica, Giacomo Manzù, che qualche anno prima si era affermato con la serie dei “Cardinali” , e il titolare di decorazione pittorica, Achille Funi. Ricordo di averli visti spesso sulla soglia dei loro studi, che erano vicini, a discutere più che a parlare, era evidente che ci fosse poca armonia tra di loro. I corridoi cominciavano a ripopolarsi dopo le due del pomeriggio, specialmente quello centrale, che dava accesso alla biblioteca statale e alla pinacoteca. Mi è capitato due volte di veder passare Giorgio De Chirico: i miei compagni lo fermavano circondandolo e rivolgendogli varie domande. Egli rispondeva con poche parole, tenendo la testa abbassata e la pipa su un lato della bocca. Allora io non sapevo che fosse un famoso pittore, inventore della corrente metafisica, così mi limitavo ad osservarlo, più che ascoltarlo. Fu il primo cappellone che ebbi modo di incontrare: aveva i grigi capelli lunghi fino alle spalle, il naso aquilino, la testa sempre abbassata ed era di piccola statura.

Nelle ore del pomeriggio, dalle due alle cinque, vi erano lezioni di modellato, di copia dal vero di gessi decorativi, di copia di nature morte eseguite ad acquerello, di prospettiva. L’assistente del titolare di scultura, prof. Vitaliano Marchini, era lomellino, di Candia, e quasi tutti i giorni ci incontravamo sul treno e sul tram per recarci a Brera. Nei pomeriggi in cui vi era modellato, il prof. Cassino, così si chiamava l’assistente, mi ricordava di prepararmi in anticipo per non perdere il treno: ricordo ancora adesso come tra di noi non ci siano stati grandi dialoghi, in quanto io ero estroversa, mentre lui silenzioso, portato a fissare chi gli si sedeva di fronte e per questo per me fonte di disagio.

Lontano dagli schemi artistici tradizionali operavano due allievi dell’accademia, Gianni Dova e Roberto Crippa. Dova aveva la mia stessa età, arrivava dall’accademia romana di San Luca, era alto, biondo e bonaccione. Crippa aveva tre anni più di me, era di media statura, elegante, bianco di carnagione e nero di capelli: era uno dei caporioni dell’accademia ed era molto convinto delle sue idee politiche. Voleva che mi iscrivessi al partito comunista per fare carriera artistica, che tralasciassi le mie tendenze tradizionali per un’arte più moderna e di effetto, come riteneva lui. Era il periodo in cui egli formava quadri con uno stropicciamento di fogli plastici fissati su legno e poi imbrattati di colore; su un lato del quadro spesso metteva una grossa luna nera. Usava la tecnica dell’incollaggio, servendosi di materiali variamente sagomati, che conferivano all’opera un valore astratto. Era appassionato di aeronautica e mi diceva che, appena fosse stato in grado di acquistare un suo aereo personale, mi avrebbe portata “tra le nuvole negli alti cieli, soli, tra le luci luminose delle stelle”. Povero e caro Roberto che la tua mania per l’aviazione ti costò la vita in un incidente aereo nei pressi di Milano, in età ancora giovanile!

Pur avendo il diploma di maturità artistica, per accedere all’accademia dovetti sostenere tre prove: figura copiata da modello, decorazione e modellato. Superate le tre prove, scelsi la facoltà di scultura e la scuola del maestro Marino Marini, il quale si era affermato con la serie dei cavalli. Era più moderno di Francesco Messina, e, visto che io pensavo di esprimermi con forme più stilizzate, cercavo la guida di un artista moderno ed equilibrato. Purtroppo in quel periodo Marini era spesso all’estero, per cui chiesi a Messina se mi accettava tra i suoi allievi; in un primo momento fu negativo, poi, grazie all’intervento del suo assistente Enrico Manfrini, fui accettata. Fu un piacere lavorare con questi due artisti per la loro serietà professionale e per la loro religiosità. Messina credeva nella santità di padre Pio da Petralcina ed era diventato suo devoto, tanto da spingermi ad una visita a questo santo francescano, nonostante fossi scettica. Manfrini, invece, come ho già detto, era molto legato al cardinal Montini. Nella scuola di Marini era possibile eseguire qualsiasi forma bizzarra, anche lontana dal modello, in quella di Messina, invece, era necessario interpretare la forma in senso positivo, mantenendo l’armonia e l’unità delle parti. Marini aveva allora 48 anni, era alto, biondo rossiccio e assomigliava ai ritratti dei personaggi etruschi dell’antichità; Messina aveva 49 anni, era tarchiato, castano scuro; il suo assistente Manfrini era giovane, belloccio e buono, dallo stile più schematico e sobrio del maestro titolare, legato agli schemi tradizionali.

Terminata Brera, ho seguito la mia strada, portando avanti la mia personale idea di espressione artistica, lontane dalle avanguardie e dai loro eccessi. Tutti questi artisti, gli ambienti affollati e vitali, i giorni a tratti caotici, ma ricchi di stimoli, sono rimasti nella mia mente e ivi si affollano e mi parlano del passato, come un grande e mirabile affresco di un importante momento storico”

 

 

 

 

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Vetril

Sistemo cassetti, mensole, armadi nel tentativo di sistemare le mie giornate. Come se un cassetto profumato e ordinato fosse il riflesso di un animo altrettanto lindo e organizzato. Come se una scrivania tersa significasse pulizia interiore. Alla fine, spugna in mano, il mio caos stride con forza ancora maggiore con il profumo di vetril che aleggia intorno. Ennesimo inutile tentativo di combattere l’entropia del mio cuore. Incasinata ma con la casa che sembra quella del Mastrolindo. E son soddisfazioni…

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Vileda

Vi ricordate il coniglietto rosa della Duracell? Quello con la magliettina gialla e i calzoncini che correva, correva, correva anche quando gli altri avevano dato forfait e si bevevano un bel mohito alla sua salute? Perché uno che corre sempre in fondo fa comodo, permette agli altri di riposare. Ecco in alcuni giorni mi sento proprio così. Rosa, con le orecchie e una bella pila sulla schiena. E quando accade vuol dire che davvero sono cotta. Perché mollare, mai. Piuttosto striscio, ma non mi fermo. Chiaro esempio della mia stoltezza, ma follia e stoltezza, genio e sregolatezza sono opposti che segnano il mio vivere quotidiano. Così. Giornata d’autunno con pioggerella che bagna anche attraverso l’ombrello. Fresco, anzi freddino, ma i collant no. Quelli velati sono scomodi e aberranti, una tortura, meglio ritardare finché non è strettamente necessario. Mattina presto e giá in coda sulla vigevanese, poi in tangenziale nella città ducale, dove le freccia è un optional non di serie e il rispetto delle precedenze la domanda sbagliata nel test per la patente. Coda al semaforo, coda al parcheggio, coda al cup dell’ospedale, coda al prelievo, coda di nuovo al cup che il sistema si era impallato, coda alla rotonda sulla via del rientro. Alle nove come idea hai già fatto giornata, ma devi volare al lavoro. In auto, mentre mangio una crostatina, auricolari e telefonata alla mamma, curva un po’ parabolica e il cellulare cade dal sedile passeggero, trascinando anche il tuo orecchio. Cerchi di prenderlo e rischi di uscire per strada, quello dietro strombazza, ecchecavolo già nervosi la mattina presto. Finalmente entri in ufficio, temperatura esterna 15 gradi, interna 10: questa estate fuori ce ne erano 30 e dentro 35. Lo fanno per non avere sbalzi di temperatura, l’avrà consigliato il medico del lavoro. Il prossimo acquisto sono i guanti senza dita stile banco del mercato, che tanto è qui fuori sulla piazza, se hanno bisogno di una mano posso essere multitasking. Alle due finalmente a casa. Coi miei amori. Pausa relax a dirimere una lite su chi debba leggere prima il giornalino, otto telefonate di varie ed eventuali in venti minuti con la classica risposta “no, non mi disturba affatto” alla Verdoniana maniera e nel frattempo lavi i piatti, rassetti, cucini i cavolini di Bruxelles con il peperoncino. All’improvviso ti ricordi che hai promesso ad un amico di aiutarlo a sistemare casa. E le promesse vanno mantenute. Uno sguardo allo specchio e sembri Amelia alle prese con Qui Quo Qua. Per salvare le apparenze almeno le lenti a contatto. Le infili e nel preciso istante in cui il dito tocca lente e occhio ti ricordi del peperoncino, bruciore atroce, fantozzi non è nessuno colli, ma ti è già successo, poi avrò gli occhi più belli pensi. Se, va bè. Esci e poi ti blocchi. Avrà l’occorrente per pulire? Mah. Data la bassa stima dell’uomo alle prese coi mestieri, metti in macchina secchio spazzolone e vileda. Male non fa. Hai un’ora massima per aiutarlo. Si si lo so, avevo detto di più. Ma non ho tempo oggi. Devo correre, correre, correre, coniglietto rosa un po’ affannato. Posteggi sul corso principale e a quel punto, lo dico col senno di poi, lasci il cervello in auto. Scendi, secchiello, scopone e vileda in mano, poi, come se niente fosse, ti fai una mezza vasca e sbirci pure un paio di vetrine. Così. In quel momento suona il telefono. Appoggi il secchiello e cerchi il telefono, che è sempre la caccia al tesoro, lo metti tra collo e spalla e a passo sostenuto raggiungi la casa del tuo amico, mentre parli del più e del meno con tua mamma. Suoni e lui apre, e quando lo guardi ti rendi conto, ma ormai é fatta. C’é poco tempo e si deve pulire no? Che qui altrimenti pensa che sia venuta per un aperitivo e si svicola. Eh no. Solo che poi, mentre sto vileda lo passo e ripasso per terra, pian piano metto fuoco tutto e mi viene da ridere, ma così da dire che improvvisamente mi sento stanchissima. L’adrenalina crolla e il coniglietto si siede per terra con le lacrime agli occhi dal ridere. E se gli altri lo sorpassano poco importa a questo punto. Perché ha raggiunto il suo traguardo. Una sonora risata. E si sa, una risata al giorno….

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Uomini e donne

Lui e lei. in palestra. Storia semiseria di alcune coppie alle prese con i manubri.

I convinti. Li riconosci al primo sguardo. Fisico tonico e tirato, decisamente big lui, sicuramente androgina lei. Perfetti nell’abbigliamento, serissimi nel sollevare pesi da lo show dei record, mai un sorriso. Anzi, come idea, ti convinci che il solo rivolgergli la parola potrebbe rovinare lo studiato allenamento e, dato il bicipite rigonfio, te ne stai alla larga. Anche perchè una volta che hai tentato il dialogo ti sei ritrovata a parlare di riso bianco, integratori, alimentazione equilibrata. No grazie. Eppure invidi la loro affinità, l’attenzione nell’aiutarsi, la sincronia del coro di voci bianche quando lo sforzo diventa eccessivo. Da copertina.

Gli innamorati. Arrivano mano nella mano. Appoggiano gli asciugamani su tapis roulant vicini e non si staccano gli occhi un attimo. Giovani di solito, con le Superga lui, con le magliettine aderenti e i leggings lei, auricolari e messaggini. Tutti gli esercizi insieme, anche se si vede lontano un miglio che della palestra non gliene può fregare di meno, solo una scusa per stare insieme. Anzi, se vengono separati, colgono l’occasione di ogni pausa per una battuta o una chiacchiera, oppure si messaggiano e facciamo prima. Teneri come i fidanzatini di Peynet e a noi sciure abituè ci fanno anche un bel po’ di invidia, sia per l’età sia per tutto questo trottolino amoroso. Love is in the air.

Il macho e la bella. Ovvero i due volti copertina della palestra. Ci sono sempre, spesso non sono solo due, ma tre quattro, insomma quelli che sono, o meglio si sentono, er mejo der body building. Difficilmente fanno coppia, e fanno a gara a schermirsi per gli altrui complimenti. Eppure sotto sotto godono come ricci, che l’allenamento è un impegno quotidiano con l’acido lattico ma soprattutto con l’autostima. Talvolta accade che si abbia notizia di una liasion tra due top fitness performers, naufragata dopo breve perchè condividere uno specchio mentre si allenano è decisamente troppo per loro. Narcisi.

I pensionati. Quelli della mattina. Finalmente si può andare in palestra senza le scadenze lavorative. Ancora in forma, non arrivano nè se ne vanno mai insieme, di solito lui arriva prima, lei se ne va prima. Per mettere su l’acqua della pasta o scaldare l’arrosto. Si allenano separatamente, eppure ogni tanto li vedi sorridersi da lontano o scambiarsi due parole veloci. La quotidianità di una vita tra addominali bicipiti e adduttori. Bellissimi e rassicuranti.

E poi tutti gli altri. Fidanzati, sposati, innamorati, disillusi, annoiati, eccitati, moderati, eccessivi. Uno spasso osservarli tra un esercizio e un altro, alle prese con se stessi e il proprio corpo. Uomini e donne, su un palcoscenico, come quello della Filippi. E il paragone, dato il contesto, è tuttaltro che azzardato…

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