Sabato mattina. I vicini ti hanno svegliato all’alba di una giornata che avresti passato volentieri nel letto. Piove e fa freddo. Lo specchio rimanda l’immagine delle tue occhiaie. Che non sono occhiaie ma la parabolica di un circuito di formula uno. Occhiaie, brufoletti da adolescente con le rughe, colorito verdastro. Che almeno Fiona in Shrek viveva in un mondo di favola, mentre tu metti fuori la testa e ti viene lo sconforto. Torni nel letto, e lo guardi. Lui ti guarda e nella penombra ti dice come sei bella…ora, già sei girata stamattina, le prese per il culo no. Perché è evidente che lo dice così, tanto per, perché il concetto di bello è soggettivo ma non fino a questo punto. E glielo dici, seccata pure. Lui si stiracchia, ti guarda di nuovo e ripete, per me lo sei. Che non hai mai capito come loro riescano ad andare oltre il trucco. Voglio dire, ci infighettiamo, trucchiamo, vestiamo e siamo passabili. Poi, quando il dischetto di cotone si porta via il trucco, i capelli si arruffano, su il pigiama accorciato dai troppi lavaggi…bè un’altra persona. Simpatica forse, bella no. Eppure per loro rimani bella. Che gli piaci da battaglia per uscire, ma anche leggings e maglietta sporca di sugo con il mollettone in testa. Fa riflettere no? Sempre cosi critiche noi. Troppo magra, poi troppo bassa, uhhh le rughe, che schifo di capelli, ecco il tronchetto mi taglia la gamba, ore di palestra e il culo cede, cosa mi metto? Tanto faccio schifo uguale…ecco così, in ordine sparso. Gli martelliamo le parti basse e non abbiamo capito un tubo. Che gli piaciamo comunque. E al diavolo i presunti canoni. Per un giorno vorrei gli occhi di un uomo, per vedermi, per vederci. E una volta per tutte sorridere davanti a sti occhi da panda della Lomellina…
Cambiamenti
Mattinata lavorativa lunga e faticosa. Di quelle in cui un problema chiama un altro come le pedine del domino. Un via vai continuo di gente e sorridere a tutti verso l’una diventa più difficile. Così quando entra un tipo a fare la carta d’identità, dentro di te fai uno sbuffo che Eolo non è nessuno. Lo guardi, domande di rito, le foto le ha? Il vecchio documento? Nazionalità? Sì perché non ha nulla del buon gusto italiano, con quel maglione a righe orizzontali rosse e grigie, il gilet trapuntato e la calvizie diffusa compensata dai pochi capelli portati lunghi sulle spalle. Che non sai se gli servono per un improbabile riporto o sono il ricordo di vecchi fasti. Comunque ti dà una carta d’identità tutta sdrucita, la apri e distrattamente digiti la data di nascita. E a quel punto ti blocchi. Sì perché il nome che leggi ti catapulta d’improvviso al liceo. Un quarto di secolo fa. Lui, il più bello della scuola, il più figo, il più alto, il più cool, il più più più, e ovviamente il più stronzo. Che manco mi vedeva. Perché io ero troppo bassa, troppo grassa, troppo riccia, troppo secchia, troppo normale per lui che era il top dei top. Lo aspettavo ad ogni angolo, anelando anche solo un saluto, che non arrivava mai. E sono traumi. Adesso fanno ridere ma sono traumi. Indelebili. Tanto che anche oggi mi è mancato per un attimo il fiato. Che mica l’avevo riconosciuto. Che talvolta gli anni fanno dei brutti, bruttissimi scherzi. Coniugato? Chiedi. No, separato. Eh, bravo, avrai sposato una di quelle strafighe, alte, longilinee, trendy, trasgressive, che appena hai cominciato a perdere il vello e il ciuffo ha lasciato spazio alla piazza e la tartaruga degli addominali si é girata al contrario, ha pensato bene di trovarsi un toy boy di 25 anni e di farti ciao ciao. E vi dirò che a quel punto la mia mattinata ha cominciato a diventare positiva. Sì perché la vendetta è un piatto che va servito freddo, e cominci a prenderti una bella soddisfazione. Procedi. Professione, altezza, capelli. Qui lui fa la battuta, eh pochi, e tu lo assecondi. Ma il bello deve ancora venire. Perché lui non ti ha riconosciuto. Timbro e firma. Prende in mano il documento, lo guarda, ti guarda ed esclama Ma dai! Eravamo al liceo insieme! È vero, come ho fatto a non riconoscerti, sei sempre carina uguale. Lumacone. Sì perché oggi tacco dodici, jeans attillato, giacchetta e faccio la mia porca figura. Tu no, invece. E a quel punto ti fa il quarto grado e conclude con un dai un giorno ci beviamo un caffè insieme. Tu svicoli, ma avresti voglia di dirgli le vedi le iniziali del mio nome? Sono lì sul tuo documento, CC, col cavolo (non penso cavolo, ma se no la mamma dice che sono scurrile) col cavolo che vengo a bere un caffè con te. Neanche morta. Con quello che mi hai fatto passare. Dolore adolescenziale e turbe per anni. Ma lui insiste e te la batte un po’. Pirla era e pirla rimane. Esce e sorridi. Una giustizia divina esiste. Oggi ne hai avuto la prova.
Principe
É che a noi donne piacciono le favole. Ci piace il principe di Cenerentola che gira per giorni con una Loboutin in tasca finché non trova la sconosciuta che sapeva di zucca che lo aveva stregato ballando ma se ne era andata prima che la serata entrasse nel vivo. Ci piace Richard Gere ufficiale che entra in fabbrica, la prende in braccio e la porta via, così, con la tuta da lavoro, e riesce anche a non sporcarsi la divisa inamidata, ritto come un fuso. Ti prendo e ti porto via canta Vasco. E a noi romantiche ci piace sta storia che ci sia un essere in qualche mondo lontano capace di lottare per noi. Di farci la serenata. Di sorprenderci ogni giorno. Di essere sordo ad ogni nostro tentativo di dissuaderlo. Di battercela con costante educazione, un martello fisso. E non per brama di possesso, che quello è patologico e non va bene. No, perché ci desidera più dello scudetto della squadra del cuore, più delle lasagne della mamma, più dell’auto, della moto, dell’ultimo iPhone. Perché non dice che farebbe tutto per noi, ma lo fa. Che noi vogliamo le follie, i fiori, i bigliettini, i baci improvvisi, gli abbracci che non ti aspetti. Perché si può fare. Senza pensare, senza esitare, senza calcolare. Col cuore. Punto. Perché a volte basta davvero quello.
Top Gun
Mio figlio ha deciso di leggere “Il signore degli anelli”. Ne avevo una copia a casa dei miei, dove ho tutti i libri che hanno nutrito la mia adolescenza. Sabato pomeriggio di pioggia, mi armo di pazienza e mi metto a cercarlo. Lo trovò quasi subito, lì in bella mostra, perché talvolta i libri ti chiamano e non puoi resistere. Era lì, sullo scaffale più alto. Mi arrampico come al solito, meno male che sono peso piuma, altrimenti un giorno o l’altro mi tiro davvero addosso tutto. Sotterrata dai libri, fine gloriosa credo, ma preferisco rimandare ancora un po’. Lo afferro e, mentre scendo, una foto scivola fuori. E si infila sotto la scrivania. E allora mi chino a prenderla, che la curiosità è troppa, e mi trovo davanti questa. Correva l’anno 1992. La tecnologia era agli albori. Per i più giovani quello sulla scrivania non è un microonde ma lo schermo di un pc. Sulle mensole peluches e libri. Il mio mondo. Romantico con brio. E il poster di un mito. Sì perché Maverik e Top Gun mi hanno sempre fatto impazzire. La colonna sonora, gli aerei, la moto, i Ray Ban e la cicca masticata da Ice man. La prima volta l’ho visto a Pavia alle medie in inglese, ho capito solo yes sir, ma è stato uno sballo. Poi è andata che la tuta di volo gira tutte le settimane nella mia lavatrice, che gli aerei sono il nostro pane quotidiano, che l’ufficiale gentiluomo me lo sono sposato. Per caso. Ecco perché appena ho rivisto questa foto dimenticata, sono scoppiata a ridere. Perché la vita è così, imprevedibile e insondabile, perchè quando ci siamo conosciuti eravamo solo due studenti e nessuno avrebbe potuto prevedere che questa immagine sarebbe diventata quasi una premonizione. E che dopo questo paragone di altissimo livello, direi che posso pure chiedere un regalo. Perché non sarò Kelly mcGillis, e nemmeno Nicole Kidman, ma sono pur sempre Lacolli, e scusate se é poco 😜
Nasate
Sono una di quelle che non imparano mai. Che inciampano nella vita, si rialzano ma non rallentano. Sui tacchi traballanti inciampano ancora, e ancora, e ancora. Mio padre da piccola mi diceva sempre che non imparavo se non prendevo una nasata. Le nasate, si, usava questo termine. E oggi ancora. E mentre me lo asciugo il naso, spesso insieme alle lacrime, giuro a me stessa che è l’ultima volta che mi faccio fregare. Sul lavoro, nelle amicizie, nella vita insomma. E il giorno dopo ci ricasco. Nonostante chi mi sta accanto mi metta in guardia. Perché sono stupida. O poco furba, non lo so. So solo che io sono una di quelle che la vita la prendono di petto, come un treno in corsa, e c’è il rischio di deragliare. Ma volete mettere l’ebrezza del vento addosso? E dell’ignoto dietro ad ogni curva?
Vasco
Il compleanno di Vasco. Che è come il compleanno di un amico, un fratello, un confidente che senza conoscerti sa tutto di te. Perché le sue canzoni sono filosofia pura di una generazione, anzi due, di vite spericolate ma non troppo, di delusioni e ribellioni, di rivincite e viaggi per trovare un senso. Perché io sono Sally Toffee Giulia la strega e tutte le emozioni che senti dentro come un pugno. Grazie Vasco. Perché vivere é sopravvivere, ma con le tue canzoni è più facile….#buoncompleannovasco
Scale
Capita talvolta nei nostri giorni confusi di incontrare qualcuno che ti prende la mano e ti fa compagnia nel salire le scale di questa vita. Ti sorregge quando tentenni, ti rallenta quando il passo rischia di farsi così svelto da non permetterti di godere del presente, ti spinge quando la paura del nuovo minaccia la serenità delle tue scelte. E se la presa é forte, dopo un po’ non sai più chi dei due spinge e sostiene, e la salita è simile ad una danza, due ballerini avvinghiati in uno splendido tango. Capita talvolta. E devi essere pronto a ballare….
22
22 anni fa non c’erano whatsapp, messenger, facebook, instagram. 22 anni fa in realtà il cellulare era per pochi eletti e il web era appena nato. Ma a noi importava poco. Ci si telefonava alla sera con il telefono fisso, il mio era nella mia cameretta in soffitta, blu e verde della Swatch, di quelli con la tastiera in cui era possibile memorizzare i numeri. E il primo numero memorizzato era stato il tuo. Come poi da sempre. Il primo numero memorizzato in ogni cellulare o smartphone, il primo scritto sulle rubriche, il numero sulla prima pagina dell’agenda alla voce “persona da contattare in caso di necessità”. Eppure ci si telefonava poco. L’appuntamento era fisso al Monumento. Che per chi ha vissuto negli anni ’90 a Mortara sa che il monumento era IL punto d’incontro. Dove adesso al massimo sventolano le bandiere domenicali di qualche partito politico in cerca di consensi, ai tempi, tutti i giorni, introno alle sei ci si trovava a chiacchierare. Due o tre vasche, un po’ di battute, il Monu era questo. Ci si accordava per il sabato sera. Che poi c’era ben poco da accordarsi, il sabato era Fiore-Pepe. Il Charlie senza formaggio e ballare con il Dulj finchè ce n’era, jeans e maglietta che tanto si doveva pogare, tornavi a casa che puzzavi di fumo e sudore e spesso alle tre del mattino era la doccia l’unico bisogno che ti rimaneva da soddisfare. E noi eravamo lì, perché lì era nato tutto e costruivamo i primi sogni. Tra un esame e l’altro all’università, quanto studiare abbiamo fatto, tre anni di collegio e mai uscita una sera, la movida pavese io manco sapevo cosa fosse. Perché alla sera aspettavo la tua telefonata, che senza cellulare dovevi passare dal centralino, sempre occupato, eppure presto o tardi arrivava, che lì hai imparato ad aspettarmi e la pazienza è di sicuro sempre stata una delle tue maggiori doti accanto a una rompipalle come me. E mi hai aspettato anche nel mio folle viaggio in America, tre mesi di pura vita, tra gli yankee di Philadelphia, tra baseball football conventions grill e molto slang. Che l’unica persona con cui ho parlato in italiano sei stato tu, attraverso il cavo arrotolato di un telefono nel basement, tra scatoloni e vecchie biciclette, un colloquio ininterrotto anche attraverso l’oceano, perché l’amore è più forte di ogni sogno americano. Poi hai iniziato ad andare in giro tu, sissignore e a servire lo Stato si va lontano, e i contatti davvero labili. E arriva il momento dei cellulari, della tecnologia, ma ormai noi si vive insieme. L’epoca dei progetti, dei sogni, che continua ancora oggi, io dai voli troppo alti, tu con i piedi ben saldi, io in continuo fermento, tu pacato e concreto. Arrivano i bambini ed è un po’ come ritornare al periodo degli esami all’università, poche uscite poco sonno tante difficoltà. Eppure mai una volta che non mi sia mancato il tuo appoggio, mai una volta che non mi abbia preso accanto a te e non mi abbia con tenerezza baciato la testa, mai una volta che tu non mi abbia rispettato e coccolato. 22 anni sono passati. Non hai più i tuoi bellissimi capelli lunghi e io non ho più vent’anni. Eppure questa sera, se chiudo gli occhi, sono ancora lo scricciolo che hai accolto nella tua vita tra gli sgabelli di Pepe sulle note di Modern Love. Sì Picconi, sei stato decisamente la più grande botta di culo della mia vita…
TV
Entro anche io nel tema del giorno. Altroché unioni civili. Sui social da qualche ora non si fa che parlare (male) dell’appuntamento serale su canale 5. Le sfumature approdano in tv. Tutto il pomeriggio che anche la radio martella con la pubblicità. Perfino la giornalista del tg5 ha azzardato un “vi lascio a un bel film”, che sa tanto di presa per i fondelli. Inizierà tra poco ma io so già che sarà una serata divertente. Come ogni volta che in TV c’è una roba melensa o un filmone alla “Vento di passioni” che piace tanto a noi donne. Divertente perché lo vedrò sul divano con mio marito. Che con il suo aplomb inglese, alla prima scena esordirà con un “ma almeno c’è qualche bella figa?” Fattore determinante nella sua sopportazione della storia. La Dakota non é il suo tipo ma, essendo sotto i trenta, potrebbe reggere. Dopo cinque minuti, essendosi ampiamente già rotto, ma per amore, mi illudo io, per pigrizia in realtà, non emigrerà nel letto a leggere, con uno sbuffo si alzerà a prendere qualcosa da sgranocchiare. Patatine, o roba così. L’importante è che abbiamo il sacchetto che ogni volta che infila la mano annulla ogni possibilità di sentire una qualche conversazione. Che, nel film di stasera, è già ridotta all’osso e di scarso livello, se me l’annulli magari é un bene, però sta di fatto che non sento un tubo a parte il tuo crunch crunch. All’improvviso mi stringerà una gamba e, guardandomi, esclamerà “che pathos, no no non riesco, come fai a mantenere il controllo di fronte a scene così profonde?!?” A quel punto, dopo un quarto d’ora, gli darò il telecomando e …fai quello che vuoi. E inizierà lo zapping selvaggio. Finché non si fermerà su quelle trasmissioni tipo Nudi e crudi, o la vita in Alaska, che invece danno soddisfazione te lo dico io. Inizieremo a sfotterci e a sparare cavolate. Che dopo una vita sai dove andare a colpire e lo fai volutamente. Sotto la copertona leopardata. Sempre più simili a Sandra e Raimondo, io a rompere le palle lui ad assentire con finta noncuranza. Che poi queste sono le sfumature che contano davvero….
Sfumature
L’articolo che segue è destinato al solo pubblico adulto. Sì perché quando si parla di 50 sfumature di grigio meglio mettere le mani avanti. Ricordate il passaparola alla pubblicazione dei libri? Tutte nascoste dietro le pagine, in alcuni casi i primi letti dopo “I promessi sposi” della prima superiore, a fantasticare su quel gran figo di Christian Grey. Tanta roba. Poi il film. Lui espressivo come un bradipo, lei che non si sa come possa essere figlia di due bombe sexy come Don Jonson e Melanie Griffith. E l’erotismo, bah, nove settimane e mezzo 10 a zero. Ma magari non ho visto bene. E tra qualche giorno sarà in tv. Pop corn e divano e magari colgo qualche particolare che mi era sfuggito. Ma con una amica siamo andate oltre. Abbiamo voluto provare il gadget. Sì perché quella storia delle palline ci incuriosiva e allora vai online e le acquistiamo. O meglio lei le acquista e, nel loro sacchetto di raso grigio, me le fa recapitare in palestra. Roba che se qualcuno avesse aperto il sacchetto la mia già traballante reputazione sarebbe crollata del tutto. Non che mi interessi, ma almeno dopo averle provate insomma. Allora, le tiro fuori. Mi scappano di mano e meno male che non c’entrano il piede, in compenso mi scheggiano il parquet. Sì perché pesano un botto. Danno più l’idea della palla del carcerato che delle affascinanti sfere che Anastasia (Ana per Christian, che, voglio dire, io un po’ me la sarei presa di un simile soprannome, va bè) che Ana dicevo si porta appresso in taxi, al ristorante, con una tenuta pelvica da guinness. Ci sono pure le istruzioni. Leggo accuratamente e, nascosta in bagno, provo. Bah niente di che. Giro per casa, ma boh, sento niente, non è che si sono perse dentro? Rileggo le istruzioni che mi viene il dubbio di aver sbagliato qualche cosa. Dice di muoversi. Allora decido di andare a fare la spesa. Al Lidl. Prova per prova. Salgo in auto, guido, nessun problema. Caspita, che muscolatura tonica, sento un tubo, ma vabbè. Carrello, scaffali, uova, latte, pane, birre…ecco davanti alle birre, decidono che basta così. E cominciano ad uscire. E io sono lì, davanti alle bottiglie di birra, in mezzo a un corridoio, e mi aspetto il tonfo delle palle, delle Geishe Balls, da un minuto all’altro. Con nonchalanche, fingendo di leggere le etichette della birra, le sfilo e con gesto rapido e veloce le infilo in tasca. Mi raddrizzo e, girandomi, incrociò lo sguardo del tipo della security che mi guarda sospettoso. Ci manca che mi chieda di fargli vedere cosa ho appena infilato in tasca. Che magari nelle prossime settimane le vedremo tra le offerte del lidl, tra i tanti prodotti utili come la cesoia elettrica o il rasoio per i peli del naso. Per ora la scampo e arrivo a casa. Le butto nel cassetto della camera. Meglio lasciar stare. Lacolli non è Ana. Me ne farò una ragione. Doccia fornelli bimbi a tavola. E arriva lui. Il piccolo. Che i fatti suoi mai. Con in mano le palline. Cosa sono mamma? Come si usano? É un gioco? Come pesano!…E tu digli che sono solo sfumature….