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Tempo

Un po’ che non scrivi mamma, mi fa notare il Lorenzino. Si un po’. Perché non si scrive a comando, perché ci vuole un motivo, un’idea, una situazione. A volte se ne hanno talmente troppe che il cervello non riesce a rielaborarle. O talmente poche e banali che condividerle in fondo non avrebbe senso. Che la banalità è davvero stucchevole, come l’ovvietà e le frasi sul tempo atmosferico. Meglio il silenzio. Il caro trascurato sminuito silenzio. A meno che non siate zen, bio, yoga, insomma una di quelle parole corte che vanno tanto di moda. Chissà perché non mi sono mai piaciute le parole corte, o le troncature, e adesso invece si parla di pale, ape, we, e chi più ne ha più ne metta. Brevi e rapide come il tempo che abbiamo da dedicare agli altri. Il tempo di una spunta su whatsapp, anzi wa, di un messaggio, msg, in cui autoreferenzialitá é un obbligo, talvolta chiosato da un “e tu tt ok?” che sa tanto a me di telochiedomanonmenefregauntubo. A me chissà perché piacciono le parole lunghe, le telefonate, le lettere, per intenderci non abc, ma le lettere con carta e penna oppure anche le buone vecchie mail. Ascoltare, anche, sapete quella cosa che si fa quando qualcuno ti racconta una cosa e cerca un confronto, ecco ascoltare, per lui, per lei, senza mettere subito se stessi al centro. Ma per questo ci vuole tempo, e quello manca sempre a tutti. O almeno così dicono. Secondo me manca un’altra cosa. La voglia, di ascoltare, di dare agli altri, di “perdere” un po’ di questo preziosissimo tempo per un altro, solo perché a questo fa piacere. Ma lo so lo so, se fa piacere agli altri a me cosa torna? Gratis non si fa niente, siamo la società dei consumi e siamo pure in crisi, ci mancherebbe. Figuriamoci pensare a cosa possa far piacere agli altri e magari a noi costa fatica e tempo, perché sbattersi? Tanto poi mando un messaggino con bacino e cuoricino ed è lo stesso, funziona così. Bè si avvisano i lettori che le faccine gialle di whatsapp sono davvero carine ma piuttosto itteriche in onestà, e che il tunnel carpale della chat preferirebbe essere sostituito dalla bocca secca per le chiacchiere, a cui si potrebbe ovviare con una buona birra insieme, o anche per quella ci vuole troppo tempo?

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Programmi

Settimana senza consorte. Viaggio di lavoro. Ti mancherà un sacco, gli dici mentre esce di casa il lunedì mattina. In realtà hai già un programmino niente male. Che, non fraintendete, sarò contenta al suo ritorno, ma dopo ventun anni di assidua frequentazione uno stacco ogni tanto vivifica il rapporto. Lo hai letto anche su qualche rivista, pagine de l’esperto risponde. E in effetti. Che poi il programma si risolve in una serie di dopocena con amiche a ciacolare, al massimo un aperitivino. Anche perché ovviamente ho con me gli altri due maschi della famiglia, a cui non sembra vero di avere la mamma tutta per sè. Che la sindrome di Edipo non è mica cosa da poco. E nell’agenda settimanale inserisci pure il rosario del mese Mariano, a redenzione dei prosecchi che hai intenzione di berti nelle altra sere. Ma quello che non sai é che il suddetto Rosario sarà l’evento della settimana. Si perché le chiacchierate serali saltano come birilli per mille contrattempi, l’aperitivo si riduce prima a un caffè e poi neanche a quello, e ti ritrovi la sera in casa davanti alla tv e meno male c’è Patrick Swayzei che ancheggia in Dirty Dancing a tirarti su il morale, anche se davvero ti senti come Baby, in un angolo. E allora giochi il jolly. L’ultima sera. Locale trendy con i bimbi, sono loro a chiedertelo e ben venga. Vai sul sicuro. Inviti la mamma a venire con te. La mamma non darà buca. E invece anche lei ti da il due di picche salvo poi cedere all’ennesima telefonata. E ci siamo. Ordiniamo, hamburger, patatine, una rossa che riempia il cuore. Musica di sottofondo, chiacchiere con la mamma che è sempre la migliore, due battute con il vicino con cui ricordi tempi andati. Relax. Alla fine la tenacia premia. O così sembra. Per dieci minuti. Il piccolo comincia a dire che ha il mal di pancia, ma sì, adesso passa, mangia, no non passa, avrai preso freddo, sarai stanco, fino sarà colpa della strada e delle curve, manco avessi fatto il passo Gardena. E tu che conosci il pollo, sai che l’idillio è rotto. Cinque minuti e lo vedi schizzare come Mennea in bagno. Già sai. Lo raggiungi ma ovviamente è entrato in quello dei maschietti, e in quel mentre c’è un harleysta uno e novanta per un tot di chili che si incipria il naso. Con nonchalance gli passi accanto, dal bagno tuo figlio emette rumori indicibili, lui ti guarda, e tu sorridi, e ti scappa la battuta, sa il bimbo no sta bene, saranno stati i mojti…che in questi momenti un po’ di ironia aiuta e poi ci sei abituata. In macchina continua la passione, a questo punto le rotonde le prendi tipo autoscontro, ormai la frittata é rotta, l’importante è arrivare presto. E arrivi, scendi, fai scendere tua mamma che plana con delicatezza sul tuo piede zeppato, ma a questo punto dito più dito meno poco importa. In casa, dopo averlo coccolato e sistemato, seduta sul divano, sguardo fisso, una birra, che a questo punto te la sei meritata, senza la forza di andare nel letto. E allora ti metti a scrivere, come al solito, per trovare uno spunto di buonumore, mentre centellini la tua birra e dentro di te brindi al silenzio di questo momento.

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Attimi

C’é un filo che lega Archiloco a Vasco Rossi, Orazio all’anonimo internauta di Tumblr. Mi capita spesso di vagare per internet a spulciare frasi, citazioni, parole, è il grande vantaggio della rete, una biblioteca vastissima a portata di mano, paese dei balocchi per una come me sempre alla ricerca di qualcuno che la aiuti a fissare un’immagine, momento, sentimento. Ovviamente necessita di filtro, perché incappare nella morale becera e sdolcinata, che fa apparire il cartiglio del bacio perugina la summa filosofica mondiale, è davvero facile. Dicevamo il filo. Un leit motiv, un memento quasi, perché se dal settimo secolo avanti Cristo abbiamo bisogno di continuare a ripeterlo vuol dire che mica l’abbiamo capito. O meglio che non lo applichiamo. I più lo conoscono grazie a Robin Williams, Capitano mio capitano, quel carpe diem che campeggia pure sulle magliette, quel vivi adesso che ancora stamattina avrò letto in dieci post su facebook. E mi chiedo allora perché è così difficile, perché poi i paladini di questa filosofia facciano spesso una brutta fine, perché il popolare giorno da leone sia frainteso come smodata ciuca o peggio. Perché io il “doman non v’é certezza” del Magnifico l’ho sempre interpretato diversamente. Più lentamente forse. Non è il nunc est bibendum, è piuttosto un tentativo di allargare il presente e farci stare tutte le emozioni possibili, è piuttosto il godere fino in fondo di ogni attimo e non rimandare, per pigrizia, inettitudine, superficialità. Attimi belli e attimi brutti. Di quelli belli faremo tesoro quando il cielo diventerà scuro, di quelli brutti ci serviremo per attraversare il dolore, perché solo facendolo potremo rialzarci più forti e consapevoli di prima. Centellinare gli istanti, ecco. Soffermarsi a guardare il cielo, sentire i profumi, dedicarsi ad ascoltare una canzone, leggere una poesia, baciare i propri cari, respirare insomma questa vita a pieni polmoni. Corta lunga facile difficile felice triste “ci han concesso solo una vita, soddisfatti o no, qua non rimborsano mai….”

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Sorriso

La Cri sorride sempre. Frase di un’ora fa. E’ vero, sorrido spesso e volentieri. In fondo le persone meritano il nostro sorriso e non gliene frega un tubo se in realtà siamo a pezzi e invece di un sorriso vorremmo mollare un pugno a qualcuno.  Eppure ci sono persone che amano farsi compatire. Che stanno sempre abbastanza bene, che sono sempre un po’ stanche, che ti rispondono con un ma sì, si va avanti. Sapete quelle che sono strafighe appena uscite dal parrucchiere, piega da urlo,  trucco perfetto, il ritratto della salute, che manco una carie hanno, le incontri al bar mentre si bevono un cafferino in relax e alla domanda ciao, come va?, ti rispondono: ma sì, dai. Ma sì, dai? E cosa volete per dire bene? L’abbonamento alla beauty farm  e Gabriel Garko ante botox che vi massaggia la schiena? No, non ci siamo. Ste facce scure, tutte le mattine, manco Atlante che reggeva il mondo aveva quel ghigno o Prometeo mentre l’aquila trastullava il suo fegato. Che i problemi li abbiamo tutti. Anche lacolli, a cui girano spesso e volentieri, problemi gravi o banali, questo poi lasciate che sia io a giudicare. Che anche qui, serie e pronte a farti pelo e contropelo, anzi l’ecografia, che magari un giorno o l’altro chiedo il referto, che la prevenzione è tutto. Ecco sì, io sorrido, al lavoro, in casa, tra amici. E non mi sforzo. Anzi, sorridere mi aiuta, a forza di farlo anche la tristezza di una giornata senza sole, anche la delusione di un malinteso che cancella una poesia sulla sabbia, ecco anche un’anima affranta ritrova l’energia per vedere il bicchiere mezzo pieno. Provateci anche voi, regalate sorrisi, non vi assicuro che ne riceverete in cambio tanti, e magari davvero pochi, uno però ve lo prometto: il vostro mentre vi specchiate la mattina.

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Maggio

Arriva maggio. E il profumo dell’estate dietro l’angolo. Anche se il cielo è coperto ed oggi sembra davvero il cotone che la nonna teneva nella scatola delle punture, morbido, ondulato, che era un peccato staccarne un pezzetto e bagnarlo con il disinfettante togliendone la soffice magia. Anche se c’é un vento teso sul mio mare di schiuma, e salsedine ovunque, sulle mani, sui vestiti, tra i miei ricci che la catturano e almeno potessero rendermela a rilascio lento quando sarò di nuovo tra le risaie. Ecco, anche se insomma è stato un primo maggio da foulard e ombrello e non certo da prova costume, io l’estate la sento addosso. É come il “Sabato nel villaggio”, la vigilia della stagione più bella, in cui assapori quel che sarà, e lo costruisci con la fantasia, pezzo dopo pezzo, lo componi e ricomponi mille volte, in un puzzle dalle infinite combinazioni. La gioia dell’immaginare, senza illusioni o progetti, fantasie di una che i piedi per terra li tiene malvolentieri, molto più bello sentirsi su una nuvoletta ad annaffiare i propri sogni e a costruire astronavi piene di musica, poesia, parole e sorrisi. Benvenuto maggio, benvenute emozioni….

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Capelli

Giornata di pioggia fitta oggi, di quelle che ti senti l’umidità fino al midollo, che vorresti startene sotto la coperta, libro, tisana, musica. E invece i soliti venti giri tra lavoro e figli, in macchina, a piedi, sempre di corsa. L’ombrello, un dettaglio, troppa fatica aprirlo, chiuderlo, una cosa in più da tenere in mano, quindi mi lavo. Sempre. Così, quando salgo sull’ascensore per rientrare finalmente in casa, lo specchio riflette l’immagine della mia piega perfetta, Coppola Via Manzoni, collezione primavera estate 2015. Che poi non è che normalmente io sia pettinata. Ci ho provato, per anni, a domarli. Essendo riccia, ovviamente li ho sempre desiderai dritti. Basti dire che il ricordo più vivo del primo giorno di liceo non sono stati professori, aule, parole, ma i capelli dritti della ragazza seduta davanti a me, lunghissimi e lisci, pure con la frangia, altra chimera per me. Eppure ci ho tentato. A nove anni ho tagliato la frangetta per la prima volta e, per paura che si arricciasse, ho dormito una settimana con la mano sulla fronte, con l’inevitabile risultato che si appiccicassero alla mano con relativo pianto mattutino. Crescendo, ho acquisito saggezza e parsimonia, inutile andare dal parrucchiere solo per tagliare tre peli sulla fronte: davanti allo specchio, forbicina delle unghie in mano, scelta che già denotava la mia attitudine all’hairstying, taglio netto e senza esitazioni. Perfetto. Sì peccato che, invece di tagliare sotto al dito che tendeva i capelli, lo avessi fatto sopra. Risultato una peluria informe lunga un centimetro, un mese a litigare tutte le mattine con sto tirabacio non desiderato e una carriera da coiffeur troncata sul nascere. E poi vogliamo mettere i capelli diritti, con i miei, ricci crespi e gonfi? E allora via di piastra, e grazie alla mamma che con pazienza me li tirava, e nell’enfasi di farli liscissimi, piastrava ogni tanto pure l’orecchio, ma come si dice se bella vuoi apparire un’ustione di primo grado al padiglione auricolare è di certo il male minore. Tanto non si vede, i capelli, diritti, lo coprono. E che dire del dilemma lungo o corto? Sempre desiderato tagliarli corti, ma no, stanno bene lunghi, ma sei matta, un peccato, e allora mi ero messa in testa che a quarant’anni li avrei tagliati. Non so perché questa età, forse mi vedevo ai tempi con una piega alla Jane Fonda, sciura sprint, sta di fatto che corti, meno corti, li ho portati anche prima. E per no farmi mancare nulla, ho provato pure le estension, ovviamente lunghissime, del tipo che volevo essere come le Barbie, con una massa di capelli che arrivavano fin sotto al sedere. E visto che ho molti capelli, le estension erano pure tantissime, e soprattutto pesantissime. Insopportabili. Cervicale e fisioterapia, altroché Barbie e Ken. E veniamo al colore. Si perché il mondo è pieno di sfumature, vorrai mica essere monotonale? Vi basti dire che tra patente, carta di identità, passaporto, non ne ho una con lo stesso colore, il prossimo documento lo faccio con una parrucca rosa, perché in fondo quello che conta è farsi notare. Che poi i capelli sono lo specchio di ciò che siamo, e io sono davvero come i miei ricci, spettinati, indomabili, spontanei, a proprio agio lontano dalla spazzola e dalla lacca che cerca di imbrigliarli in una forma prestabilita. Come dice Nicolò Fabi “Non sono venuto in motocicletta, non mi sono pettinato con le bombe a mano, non ho messo le dita dentro la spina, non mi sono lavato con la candeggina, sono uno di quelli che porta i suoi lunghi capelli per scelta e non usa trucchi, e voi levatevi la parrucca”….

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Scatole

Quando ero una ragazzina, andava di moda la Smemoranda, diario che esiste ancora adesso, ma non so, se come ai miei tempi, sia ancora in auge quadruplicarne le dimensioni, infarcendolo di biglietti, manufatti, ricordi, pensieri. Le mie trasudavano di oggetti tra i più svariati, dalla cannuccia con cui il fidanzatino del tempo aveva bevuto la granita alle foto di classe a tanti tantissimi articoli, tanto che era necessario chiuderle con un elastico e spesso non era nemmeno abbastanza. Col tempo mi sono ridimensionata ma a quarant’anni suonati nella mia agenda figurano oggi una rosellina essiccata, svariati scontrini ricordo di cene caffè aperitivi, la carta tolta alla bottiglia di una nota marca di birra, e tutti i bigliettini dei miei bimbi. Come a dire, che non ho più la smemo ma un sano feticismo dell’oggetto memoria di momenti importanti fa parte del mio dna. E una volta finito l’anno, tutti i diari vanno in un cassettone in soffitta, come da migliore tradizione di romanzo d’appendice. Ma ho trovato chi fa meglio di me. Un’amica mi raccontava come da anni inscatoli i morosi. Ovvero, terminata una storia, e lei a differenza di me, che sono nata monogama, ha avuto invece una regolare vita sentimentale, dicevamo passato il momento dei baci e della passione, ripone ogni memoria in una scatola che chiama con il nome dell’ormai ex. Ci sarà quindi la scatola del fumatore, con cicche, cartine e accendini, che la apri e ti vedi ancora lì, in una serata da Certe notti di Ligabue, con le nuvole di fumo e il sapore un po’ acre dei baci tra cosce e zanzare; la scatola in cui trovi anche la maglietta di una sera speciale, il biglietto di un treno, il tovagliolo di una pizzeria, che ti legano a quell’amore di cui ricordi tutto ma lo concretizzi solo quando apri il coperchio. Sentendola raccontare, in un primo momento mi ha fatto ridere, un po’ come se le facce di ognuno di loro facessero capolino da queste polverose scatole in soffitta, poi però ho pensato che fossero come tanti vasi di Pandora, con il loro nome scritto in lettere maiuscole e un universo di sentimenti da raccontare. E il fatto che lei conservasse tutto fosse un bellissimo modo per continuare a far vivere emozioni, che magari poi gli eventi avevano appannato o sminuito, e che invece, comunque sia finita, in questo modo riusciranno sempre a far sgorgare quella lacrima che nasce da un cuore troppo sensibile. Dovremmo averle tutti le scatole dei ricordi, ordinate e precise, e non distruggerle mai, nemmeno per ira o risentimento, perché se siamo come siamo è grazie anche alle persone che anche solo per una stagione ci sono state accanto con le loro cartine, i loro  baci o semplicemente il calore del loro abbraccio.

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Fornelli

Amo invitare gente a cena, mi piace trascorrere una seratina intorno al tavolo in totale relax, fra vino chiacchiere e risate. Lo farei sempre, più volte alla settimana, se solo avessi una cuoca personale. Non che non mi piaccia cucinare, anzi. Compro riviste di cucina, trascrivo le ricette, chiedo alle amiche, ne parlo perfino sul tappeto in palestra. Salvo poi realizzarle davvero di rado. Colpa del tempo che manca. Colpa dei troppi impegni. Colpa dei gusti semplici dei miei familiari, che mi agevolano in una cucina per così dire più basilare. Ecco, fin qui le giustificazioni di rito. La realtà é che l’attitudine al fornello o ce l’hai o niente. Come il pollice verde. Io non ho nessuno dei due. La possibilità di sopravvivenza di una pianta nel mio quotidiano é pari a quella di un cammello al polo nord, da fantascienza. Così tra i fornelli. E non pensate che stia esagerando. La mia dolce metà non si lamenta mai, per fortuna; d’altra parte, come dice lui, al lavoro a pranzo mangia bene, primo secondo contorno frutta, ben cucinato, tanto che spesso tesse le lodi del cuoco e ogni tanto mi porta pure a casa una ricetta, chissà che impari. Bene, direte voi. Insomma, dico io, mangia in una mensa militare e ai miei tempi si diceva che il militare faceva bene perché imparavi a mangiare di tutto. Ergo, sono peggio del rancio del Soldato Jane. Che poi che mi fregano sono i tempi di cottura. Perché il tempo massimo che posso passare davanti a un fornello sono cinque minuti. Poi mi stufo e faccio altro nel frattempo. E dimentico. Ma totalmente. Le mie preferite sono le carote saltate in padella. Che a differenza che ne so delle zucchine non sono pronte subito, le devi far andare un po’, così mi dedico a fare il letto, o la doccia, oppure esco. Sì, esco con le carote sul fornello. Salvo poi ricordarmene mentre sono per strada, oppure mentre sono a messa, chissà perché quella volta al Gloria ho collegato la padella, la cucina, le carote e sono uscita di corsa, tipo Usain Bolt, peccato che lui indossi le Puma e io un paio di tacchi, ed era gennaio per cui neanche a dire di toglierli. Sono entrata in casa e avrei potuto appendere la padella tipo opera contemporanea con le verdure che erano diventati simili a bulloni, titolo i mali del femminismo, non ci sono più le donne di una volta che si alzano all’alba per cucinare il pranzo domenicale. Per non parlare della puzza. Mi aspettavo una catena umana tipo quella contro i fanghi, puzza di grimo per una settimana in tutta la scala. E vabé. Però le tavole le apparecchio bene, piatti sottopiatti candele…una vera passione per le candele. Sempre un successo le mie tavole, piene di sorprese e di suggestioni. Come quella del portacandele egiziano. A forma di abete. Che un dubbio che fosse una sola avrebbe dovuto venirmi, dal momento che sono noti i boschi di abeti sulle rive del Nilo. Molto etnico comunque, con fiamma filtrata. Peccato che il portacandelina mancasse del fondo e che piano piano, procedendo la serata, oltre ai fumi dell’alcol salissero anche quelli della tovaglia di fiandra e del mollettone in fondo. Oops.  Buchino. Buchino, no, voragine, e meno male che il tavolo é di vetro, salvata in corner. Però tanto spettacolo. Perché in fondo il piacere é nella compagnia, e la pizzeria da asporto in fondo alla via é una gran comodità, così come gli amici che si offrono di preparare mentre io accendo la musica e le candele. Ed é subito calore.