Letture estive. Un’abitudine vecchia una vita per me. Che i libri sono la prima cosa che infilo in borsa prima di una vacanza. Immancabili nella cesta della spiaggia, da sempre. Ragazzina in riva al mare, asciugamano, pancia in sotto, occhiali, libro. Un tuffo ogni tanto e poi di nuovo immersione nelle righe. Che tutti i libri di quegli anni sono rovinati dall’acqua, pieni di granelli di sabbia, vissuti si dice. A volte perfino sulla piattaforma, nuotando con un braccio e con l’altro tenendo sollevato il sacchetto con dentro la mia compagnia preferita. A nutrirmi di storie. Robetta tipo “Jane Eyre”, “Cime Tempestose”, “Anna Karenina”…e poi autori come Guy de Maupassant, Hesse, D’Annunzio…che poi una si crea un ideale sentimentale un po’ alterato, da romanzo d’appendice, e a tredici anni sono fondamentali che pesano. Alle mamme delle femmine, attente alle letture, su certe bisognerebbe scrivere vietato ai minori di, che da giovani ste paladine del sentimento ti influenzano più delle cosiddette compagnie sbagliate. Che poi cresci con il mito del principe azzurro e dell’amore che trionfa sempre. E non é una bella cosa. E a dare il colpo di grazia arriva il liceo classico e le eroine alla Medea e Antigone. Oggi forse avrei letto “50 sfumature di grigio”, sempre un po’ deviante ma perlomeno più divertente e dagli esiti decisamente meno tragici. Non lo so. Viste le fregature da sentimentalista scollata dalla realtà, col tempo mi sono dedicata ai gialli, thriller e più c’é sangue meglio è. Insomma alla realtà. Dal pink al noir, da Beautiful a Quarto grado. Che amarezza….
Tiffany & co.
Giornata uggiosa. Giretto al mercato ligure. Bancarella di collanine, braccialetti, perline. In pieno Amarcord, sognante, guardi il tuo lui e “da ragazzina venivo sempre qui a comperare tutte queste cosine, colorate, vivaci, che tempi!” Lui ti lascia finire e con giusto un velo di ironia ribatte “adesso vai da Tiffany sulla Fifth Avenue…”…touchè…capitano 1-lacolli 0 (per la serie mi rinfaccerà a vita un peccatuccio giusto per sentirmi come Audrey…)
Rincorrendo pensieri
Ombrellone, lettino, bordo piscina in un caldo sabato di luglio. Niente da leggere. Cellulare nella borsa, social anche loro in relax per un po’. Occhi chiusi sotto gli occhiali scuri e davvero voglia di isolarsi dal mondo. E per un po’ ci riesci. Seguendo l’onda di un pensiero che da un paio di giorni rincorri ma nel trambusto del rientro da un lungo viaggio non riesci a portarlo fino in fondo. Capita spesso, una riflessione, un’illuminazione troncata dalla necessità del contingente. A volte non ritorna, e allora la lasci sfuggire perché forse non era così forte da meritare un cassetto della tua mente. Altre volte invece si ripresenta e man mano ne aggiungi un pezzetto, interrotta dalla voce di tuo figlio, dal suono della pentola a pressione che prima o poi davvero esplode, dal telefono che sembra non dare tregua. Eppure non se ne va. E con tutti questi rimandi fai fatica a darle forma, come tutti i lavori portati a termine con continue interruzioni, hanno un che di raffazzonato. E un pensiero non può essere raffazzonato. E allora in questo pomeriggio di apparente tranquillità, cerchi di riprenderlo da dove è iniziato e di portarlo per mano alla sua conclusione. Se una conclusione ce l’ha. E a quel punto arriva la doccia fredda. Inaspettata. Non metaforica. Purtroppo. Sí perché in un caldo pomeriggio di luglio ai tuoi uomini non sembrava giusto lasciarti rosolare al sole in silenzio a fantasticare, pensavano ti sentissi trascurata, accaldata, triste insomma. E allora cosa c’é di meglio di una secchiellata d’acqua corroborante? Alle spalle, che non te l’aspetti, uno shock termico che congela qualunque idea, pensiero, e anche i neuroni residui. Pure quelli omicidi nei confronti dei due mattacchioni che hanno ideato il tutto, perché li vedi ridere così di gusto, così belli che in fondo li ringrazi perché ti hanno rinfrescato. Potere dell’amore, capace di trasformare la sensazione più sgradevole in miele dolcissimo. Che poi il pensiero che ronzava in fondo era questo. Dionisiaca o apollinea? Il cuore o la testa? Sentimento o ragione? Una secchiata d’acqua ha risposto che il cuore, in un modo o nell’altro, la vince sempre…
Williams
Quando organizzi un viaggio on the road la scelta dei pernottamenti é dettata principalmente dalla vicinanza ai luoghi di interesse da visitare e alla disponibilità nei motel. Nel caso del West americano si tratta spesso di paesini costituiti da una via e dai servizi di base, mai sentiti e che probabilmente dimenticheremo una volta tornati a casa. Ecco questo doveva essere Williams, Arizona, all’ingresso del Gran Canyon. Un posto dove cenare e dormire. Punto. E invece ho scoperto uno dei luoghi più incredibili del mio viaggio. Due strade parallele, di cui una la storica Route 66, costeggiate da una ferrovia in cui i treni passano fischiando e buttando fuori fumo, case basse nella migliore tradizione country, negozi ristoranti motel. E fin qui niente di che. Aggiungete però che l’atmosfera è ferma agli anni 50 e 60, senza essere pacchiana o costruita, che le vie sono animate da botteghe con le insegne con le luci al neon che si accendono e si spengono, e all’interno tutto sulla route e sulla sua vita. Posteggiate lungo la via innumerevoli Harley, Cadillac, Chevrolet, tutte old style e tenute benissimo, furgoncini Wolkswagen coloratissimi. Da cui vedi scendere personaggi in linea con il veicolo, riders vestiti di tutto punto dalla bandana al boots, cow boys di ogni età, cappellaccio stivali fibbione, nostalgici di Woodstock con i loro vestiti colorati. Nelle verande dei bar al calare del sole cantanti country con chitarra e microfono riempiono l’aria della colonna sonora perfetta, mentre nei pub dalle luci soffuse, dominati da biliardi su cui sono appoggiate bottiglie di Coors, Sierra Nevada, Bud, il cantante è più rock, ma sempre col cappello da cowboy in testa. E mentre sei lì ferma all’incrocio e ti godi il sound, pensi che questo posto riassume davvero lo spirito americano che ami, così vicino alla natura sbalorditiva del Gran Canyon e davvero on the road, nostalgico quanto basta, eppure palpabilmente autentico. Agli sgoccioli di questo tuffo nel west, ho trovato il giusto feeling. Yes, I got it….
Cappelli
Seratina steak house dopo trecento miglia e rotti di guida. Quattro italiani in un paesino che è una strada con motel, fast food, distributore e il suddetto ristorante. Entriamo e già siamo diversi perché sono le otto e sono tutti al dessert, qui si cena alle sei e la cucina chiude al massimo alle nove. Siamo così subito simpatici alla cameriera che però, visto che vive di mance, si sforza di essere gentile. I miei figli decidono che non ci hanno notati abbastanza e discutono per chi si siede a destra e chi a sinistra. Sì, siamo italiani, e meno male che l’americano è più casinista di noi. Ci sediamo in una sala in cui ci sono altre due tavolate. A questo punto mi sento in uno dei giochi enigmistici del tipo trova l’intruso. Che stasera è mio marito. L’unico senza berretto con visiera. Ben piazzato sul capo durante la cena. Si perché l’americano vero lo riconosci dal berretto. Pensavo fosse proprio dello yankee in vacanza, uno di quegli oggetti che tutte le guide raccomandano sempre di avere a portata di mano quando si intraprende un viaggio. Come la borraccia, il k-way e i fazzoletti. Invece no, il cap, viene indossato al mattino e vietato toglierlo per qualsiasi ragione. Ragione e galateo del vecchio continente ovviamente. In auto, in chiesa, perfino in aereo, cinque ore di volo senza neanche grattarsi la testa o sistemare la visiera. Con l’accordo non scritto che in un gruppo lo devono portare tutti. A questo punto mi chiedo se lo tengano anche per dormire e fare altro, solo che l’immagine dei tizi al tavolo a fianco nudi con il solo berretto in testa é piuttosto ripugnante e la bisteccona con patata al cartoccio che ho davanti non merita di essere rovinata da simili pensieri. Però, però, come era la colonna sonora di nove settimane e mezzo? Live your hat on…magari…
Get your kicks on Route 66
On the road vuol dire conoscere da vicino chi la strada la vive e ne detta i ritmi. Ovvero i mezzi che la animano. Sarà che passando da Hollbrook ho rivisto i luoghi da cui è stato tratto il cartone animato Cars, sta di fatto che la mia attenzione è stata catalizzata oltre che dal paesaggio e dal cielo mozzafiato, da tutta la fauna che corre lungo le highways del west. Una fauna cattiva, nel senso che il veicolo americano non ha le forme arrotondate delle nostre auto, ma è spigoloso, materiale, e soprattutto grande. Grandissimo. Sproporzionato. Primi fra tutti i re della Route 66, i tir, con la barra sul muso, i colori sgargianti, il rimorchio in acciaio che riflette le sfumature del deserto dell’Arizona o il cotone delle nuvole bianche in un cielo senza fine: dei bestioni, che dominano la strada, sorpassano a destra e a sinistra, e pensi che se si trasformassero in robot come i Trasformer non ci sarebbe nulla di strano. Accanto a loro, i pick up, larghi il doppio del mio garage, il cassone più ampio del muso, i finestrini sempre abbassati, al volante un tizio col berretto o il cappellaccio da cow boy, che se non ce l’hai il pick up non lo guidi, e nel posto passeggero il cane che mette fuori il muso dal finestrino. Uno sballo davvero. Alcuni patriottici montano la bandiera americana sul retro, altri trasportano amici, tutti, ma proprio tutti, bruciano l’impossibile in quelle marmitte, e il fumo che ne esce non è certo earth friendly. Più educate le auto, che sono solite rispettare segnaletica, limiti, semafori, anche perché qui la polizia se ti ferma ti fa pure la colonoscopia e non è piacevole: grandi anche loro, e molte, moltissime arrugginite, scassate insomma, ma per l’americano in genere è la comodità che conta, sullo stile ci penseremo. A lato della Route, la ferrovia, con i treni merci dai cento vagoni, il vettore posteriore che brucia carbone, il suono continuo: nel terzo millennio ti sembrano ancora i treni della grande marcia verso ovest, quelli attaccati dagli indiani o dalle diligenze. E tra queste lande la cosa non ti sorprenderebbe poi tanto. E infine loro. Le moto. Che nell’ovest sono Harley. In tre giorni non ne ho viste altre. Loro, velocità moderata, alla guida lo standard sono maschi con la coda, la bandana in testa, che qui il casco si vede non si usa, giubbotto smanicato di pelle, pizzetto o almeno baffi, pancetta o panciona, che l’harleysta magro non esiste, e sigaro o sigaretta in bocca. Tranquilli, rilassati. Che faresti subito l’autostop per farti caricare da tipi così, sanno di west e di libertà, sono lo specchio della calma degli indiani e della creatività di queste lande. Sì, senza dubbio, con una Harley get your kicks on Route 66.
July 4th
Indipendence day, il 4 luglio, a New York. Già a pensarci ti viene la pelle d’oca. La festività per eccellenza per gli americani nella città che ne è il simbolo, ancora di più dopo l’11 settembre. E quando esci al mattino per una passeggiata tra Soho e il Greenwich Village cominci a farti un’idea più precisa del nazionalismo americano. Bandiere ovunque, di tutte le dimensioni, molte di più di quelle che già solitamente colorano ogni strada degli States, palloncini, girandole. Stelle e strisce soprattutto sui vestiti, dal discreto fazzoletto alla maglietta d’ordinanza, fino a total look degni di nota, occhiale rosso e blu, maglietta, pantaloni, scarpe, un tutt’uno che risalta particolarmente nei meno giovani, che sono però i più convinti. Il trionfo del kitsch, dell’americanata, che oggi è perfetta, ci piace un sacco. Times Square è ovviamente il fulcro di tutto questo, con delle signorine che manifestano il loro patriottismo con un body painting che lascia davvero poco all’immaginazione, e per un attimo sembra il Carnevale di Rio, dato il lato B perizomato di tutto rispetto. Ma la vera festa inizia nel tardo pomeriggio, una fiumana di migliaia di persone che si radunano sulle coste dell’East River ad aspettare lo spettacolo pirotecnico che ogni anno Macy’s offre alla città. Pakistani, Cinesi, afroamericani, latini, solo per citarne alcuni, in realtà c’é davvero tutto il mondo sulle rive di Manhattan, Long Island e Brooklyn, tutto il mondo con le sue peculiarità e un inglese che ha mille inflessioni e che rende americani anche noi, quattro turisti italiani che per una sera vogliono sentirsi parte dell’American Proud. A vigilare, dirigere, indicare, organizzare sono i Policemen di New York, centinaia, cicca in bocca, mani sui fianchi, un po’ di pancetta, sorriso ma non troppo, del tipo siamo qui per far festa ma vedi di fare quello che dico, un cordone blu che sembra non finire e che tutto sommato ti dà sicurezza. Nell’attesa ovviamente faccio amicizia con tutto il vicinato, e trovo uno che è appena stato a Florence, a Rome, a Montepulciani, un altro che ha il fratello che lavora a Milano, l’altro a Roma, una volta erano loro lo zio d’America, adesso noi siamo la nonna d’Italia, aggiungi un posto a tavola che ce n’è per tutti. Nell’attesa qualcuno intona l’inno americano ed è brivido collettivo. E poi i fuochi. Tanti, esagerati, colorati, rumorosi, che si riflettono nei grattacieli sul fiume, intrecciando ricami sorprendenti tra le urla di una folla che non aspetta altro che applaudire. A bocca aperta. Amazing.
Taxi
Che i taxisti newyorkesi siano una leggenda lo sapevi. E lo avevi pure sperimentato. Eppure riescono sempre a sorprenderti. Arrivi in aeroporto dopo otto ore di volo, valigie, marito e bambini al seguito. Un po’ stanca, non fosse altro perché tuo figlio soffre il mal d’aria, oltre al mal d’auto, d’acqua, di treno, insomma di ogni mezzo di locomozione che non siano le sue gambine. E quindi ha già battezzato il suolo americano. Come dire, marchiamo subito il territorio e via. Perciò te lo trascini e sei stanca. Ma hai prenotato il taxi e sei tranquilla, tra poco hotel e nanna. Ti viene incontro il taxista, mezza età, di colore, occhiali sulla testa rasata, camminata alla Will Smith, gomma in bocca. Parte e sei subito più sveglia. Sembra di essere sull’auto scontro dei Brivio il giorno della festa del paese. Slalom tra le auto nell’ora di punta, frena, inchioda, riparte, il tutto con questo movimento dinoccolato della testa che a questo punto capisci non essere una mossa alla Michael Jackson in Moonwalker, ma un tic, che segue l’andamento delle curve che sto Hamilton di Harlem disegna dirigendosi verso Manhattan. E meno male tuo figlio si è addormentato, se no altroché marcare il territorio, che qui è come essere sull’Oblivion di Gardaland. Al semaforo, un leit motiv: inchioda, sputa due o tre volte fuori, beve e strombazza, a volte saluta il taxista di fianco, con uno slang che mi fa impazzire. Un po’ presbite il taxi driver, sì perché oltre a mollare il volante per chattare sul telefono che ha in mezzo alle gambe e a regolarsi l’auricolare dell’ipod, ogni due per tre abbassa gli occhiali dalla montatura rosso chanel very fashion che ha sulla testa per guardare il navigatore, più tecnologia in un metro quadrato che in tutto il negozio della Apple. Eppure pian piano il feeling della grande mela entra dai finestrini, non appena il tuo sguardo viene investito dal tramonto su cui si staglia il profilo del Chrysler Building e dell’Empire, e si posa sui sedili di pelle nera un po’ sudicia e umidiccia di sudore. E cresce la voglia di viversela questa serata newyorkese, mentre la strada si stringe tra i grattacieli e non importa la velocità, il clacson, gli sputi, la nausea che è venuta anche a te. Uno sguardo in alto, eccolo lì, di nuovo, finalmente, il cielo di New York, riflesso nelle finestre dei grattacieli, e già sai che passerai quattro giorni a testa in su. A volare camminando nella grande mela….
Lacolli on the road….si parte
“Coraggio, lasciare tutto indietro e andare, partire per ricominciare….”…il tormentone di questa estate, perfetto questa mattina mentre guardo i bagagli e mi dico ci siamo. Si parte. Si va. E già questo é energia pura. Perché che sia la scampagnata domenicale o la vacanza da sogno, quello che conta è andare. Come scrive Kerouac “dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare”. Ecco andare, conoscere, esplorare, sperimentare. Un viaggio è tutto questo, una dimensione a sè, che ti permette di lasciare a casa problemi, pensieri, la tua stessa vita, e aprirci una parentesi, una sorta di vita nella vita che comunque ti cambierà. Perché al ritorno non si è più gli stessi, quello che abbiamo visto, sentito, annusato, toccato ci rimarrà dentro e saremo un pochino più ricchi, più forti, rinnovati alla vita. E la realtà avrà tratti più definiti, e la valuteremo con più oggettività, come un bel quadro che manifesta la sua bellezza totale e magnetica se lo guardi da lontano, perdendo di vista i particolari. Quindi tra poco si vola. Lontano. Nella città in cui tutto sembra troppo grande per te eppure hai la sensazione di poterlo possedere, tutto, semplicemente camminando tra mille razze diverse. New York, arriviamo. Lacolli on the road, che il viaggio abbia inizio….
21 giugno
Estate. Di nuovo. Con le giornate lunghe e le albe luminose che mi buttano giù dal letto che in realtà è ancora notte, perché quando imparerò a tirare bene giù le tapparelle sarà davvero troppo tardi. E così ti svegli con quel raggio di luce poetico che ti colpisce gli occhi, e un po’ ti senti come il Giovin Signore del Parini, peccato che per lui fosse mezzogiorno, per te le cinque e non è un piacere. E ti giri e ti rigiri, a quel punto tanto vale accoglierla questa estate, il giorno più lungo, alla finestra, con il sole che sorge dietro al condominio di fronte e solo tu con la tua fantasia pensi di essere un druido a Stonehenge e vedi la poesia in un’alba Lomellina di una domenica mattina davvero troppo assonnata per essere goduta a fondo. Estate. Di nuovo. Mare salsedine sabbia e la sensazione del corpo che si risveglia. Del sole che penetra così in fondo e scalda anche gli angoli più freddi, e ti scaldi così tanto che al solito ti scotti, perché sei quella che annulla in due giorni mesi di antirughe e trattamento viso, che altroché protezione adeguata, acceleratore che se non sono nera nera non è estate. Fa niente se dopo una settimana sarò come un rettile del Sud America, e se il naso sarà spellato fino a settembre, e se la ruga sulla fronte sarà sempre più profonda. In fondo in quella ruga c’é la bellezza di tutte le estati passate, degli occhi strizzati a fissare il cielo assolato, delle ore a leggere mentre il mare risacca la sua melodia, dei mille pensieri che l’estate porta con sè, leggeri e azzurri come il colore del mondo. Estate. Di nuovo. Sulle note di un concerto rock, che è quello di uno stadio che ondeggia di mille luci, ma anche quello del mio cuore, che non sa battere al ritmo barocco di uno spartito vivaldiano, ma risuona sempre come i piatti della batteria di Will Hunt, e non sempre è facile ballarci a ritmo. Estate. Di nuovo. Benvenuta…