Il popolo ucraino ci sta dando una lezione di dignità che non dobbiamo dimenticare. Dovremmo conoscerlo, a dire il vero, che le sue donne da anni fanno parte della nostra società, in una silenziosa integrazione che dà valore aggiunto al benessere soprattutto di anziani. Una lezione di patriottismo. Resistenza. Orgoglio. Coraggio. Commovente, davvero. Ma non diteglielo. Che non vogliono essere compatiti ma supportati, aiutati. Non mendicano ma si tirano su le maniche. Un esempio per tutti noi. Riflettiamoci.
Ucraina ❤️
Lei è una donna forte, credo la più forte che io abbia mai conosciuto, fisicamente e caratterialmente. Uno scricciolo, minuta, semplice, eppure determinata. Una donna che vent’anni fa ha lasciato la sua casa, i suoi figli, la sua terra, l’Ucraina, per andare a lavorare in un Paese di cui non sapeva nulla e dove non conosceva nessuno. Non l’ha fatto per diventare ricca o avere successo, no. L’ha fatto per poter garantire ai suoi figli un’educazione scolastica, vestiti, una casa, un’auto. E poi, negli anni, aiutarli per costruirsi un futuro, sposarsi, avere dei figli a loro volta. Tutto per loro. Vent’anni a lavorare come badante, a lavare anziani, pulirli, curarli, affezionarsi a loro, piangerli quando se ne andavano, ricominciare da capo in un’altra casa, un altro anziano. Vent’anni non sono uno scherzo. Ma lei é forte. Torna a casa un mese all’anno e quando è là li aiuta nei campi, accudisce ai nipoti, fa il pieno di quell’affetto che per il resto del tempo corre sulla linea telefonica. Come lei, tante, tantissime altre donne. Ucraine. Forti. Orgogliose. Poi arriva il Covid, e la distanza diventa più dura da reggere, perché anche lei ha paura dì questo virus che sembra non dare scampo. In Ucraina, mi racconta, devi pagare tutte le cure, non come qui, che il sistema sanitario ti cura se stai male. Già, lei riesce sempre a farmi sentire fortunata dì essere nata in Italia, nonostante tutto. Lei è forte, e ai forti la vita riserva prove più dure. Un anno fa, a marzo, suo figlio si ammala di Covid e muore. A 38 anni. In una settimana se ne va e lei non fa in tempo ad arrivare per salutarlo. Però poi torna in Italia, perché la sua famiglia ha bisogno del suo lavoro. Torna con il cuore a pezzi, ma non si ferma. A sostenerla anche la fede, che gli ucraini sono il cuore dell’ ortodossia russa e hanno un credo fortissimo. In questo anno difficile, altri lutti la tormentano e lei vacilla. Comincia ad avere i suoi anni, ma, mi dice, tra un po’ prenderò pensione, così la darò a mia figlia. Capite, che forza? E lavora, lavora, lavora. Ma oggi l’ho vista piangere senza fine. Oggi, di fronte alle bombe e al suo popolo assediato, l’ho vista perdere le speranze. Perché lei ha fatto tutto per la sua famiglia, che è rimasta in Ucraina, perché orgogliosamente Ucraina. Perché è in quel Paese, il loro Paese, libero, indipendente, che vogliono vivere. Vogliono costruire, crescere, lavorare per quella terra che troppe volte i russi hanno depredato. Andate a vedere il film “Raccolto amaro”, che racconta dell’Ucraina invasa da Stalin negli anni ‘30 e capirete molto del rapporto tra russi e ucraini. Lei é forte, ma anche alla forza c’è un limite. E quelle bombe, ieri, oggi, l’hanno oltrepassato.
Due anni
Due anni. Sì, due anni da quel 20 febbraio 2020 in cui abbiamo avuto notizia del paziente 1, ovvero del primo caso “autoctono” di Covid a Codogno. Due anni in cui sono cambiate tante cose, ma soprattutto siamo cambiati noi e il nostro modo di relazionarci. Ci siamo detti che ne saremmo usciti migliori. Bah. Di migliore vedo purtroppo poco intorno a me. Ma, nel mio incrollabile ottimismo, voglio pensare che ci stiamo ancora leccando le ferite, che la pandemia è ancora in atto, che forse dovrà passare un po’ di tempo perchè la distanza ci regali i giusti insegnamenti. Di sicuro siamo più egoisti, più stanchi, più arrabbiati, più poveri economicamente, più disillusi. Ecco, disillusi. Il Covid ci ha tolto l’illusione di essere invincibili, perchè dai, dopo essere andati nello spazio, dopo aver inventato tecnologie che ci regalano il mondo in un clic, dopo aver reso il mondo davvero piccolo, ci illudevamo che nulla avrebbe potuto sconfiggere la nostra fantastica umanità. Ecco, forse un meteorite come quello di “Don’t look up” ci faceva un po’ paura, ma non certo un virus invisibile e microscopico. Eppure ci ha messi in ginocchio e dobbiamo assolutamente fare tesoro di questi due anni. Abbiamo imparato a gestire la paura, riscoperto il valore di un abbraccio, compreso quanto sia fantastico viaggiare, colto a fondo il valore unico della libertà, rimesso al centro la nostra salute, prima di tutto. Io sono cambiata in questi due anni e non sarò più quella di prima. Ma va bene così. Il cambiamento è necessario per il progresso e guardare indietro serve solo nella misura che possa insegnarci qualche cosa. Quindi, nel ricordo di chi non c’è più, avanti tutta.
Ogni scarrafone….
Ogni scarrafone è bello a mamma soja, lo sappiamo. Ma, in questo momento, fossi in Federica Brignone credo che sarei davvero arrabbiata con la mia mamma. Perchè Federica è una donna adulta e una grande campionessa. E il veleno gettato su un’altra grande come Sofia Goggia è inutile quanto controproducente. Da mamma e da figlia credo valga la pena ricordare che crescere un figlio vuol dire supportarlo e insegnargli a vivere nel mondo, non difenderlo a prescindere. Anche quando non serve. Vale per la Brignone e vale per tutti noi, sempre pronti a difendere la creatura dalla maestra, dall’amico, dall’allenatore, a elogiarla sempre e comunque.
Che farsi commiserare dal proprio figlio è qualche cosa che non mi auguro, nè auguro a nessuno.
Super Goggia!
Ho sempre pensato che lamentarsi serva solo a sprecare energie, che possono invece essere utilizzate per reagire alle situazioni difficili. Sofia Goggia è un esempio bellissimo di questa mia convinzione. Vittima di un infortunio al ginocchio tre settimane fa, contro ogni previsione è riuscita ad andare alle Olimpiadi a Pechino e ha pure vinto una medaglia d’argento. Ora, farsi male ad un ginocchio se sei una sciatrice e devi fare la discesa libera, è quanto più vicino possa esserci ad una sentenza di sconfitta. Perchè scendere, come ha fatto lei stanotte, a centotrenta chilometri orari su un muro innevato, valutando pieghe e appoggi, in una situazione in cui un minimo sbaglio può farti cadere e farti davvero tanto male, bè non è cosa per tutti. E’ cosa per una campionessa determinata come Sofia Goggia. Cosa per tutti è invece l’esempio che deve darci questo gesto sportivo. L’idea che dalle cadute ci si rialza, si combatte, si cerca in ogni modo di arrivare al risultato. Senza recriminare, senza dare la colpa a questo e quello, senza riempire i social di patetici “non ce la faccio”. La vita non regala nulla, la vita si suda, si vive. E se poi non arriveremo alla medaglia come super Sofia, avremo però la certezza di averci messo l’anima. E questo, davvero, è il senso ultimo della fiamma olimpica e del nostro vivere.
ps Grandissima anche Nadia Delago, bronzo!
Credici
Credere nelle proprie capacità non è un fatto scontato, ma una qualità da educare, giorno per giorno. Nasce e si sviluppa grazie all’esempio e al lavoro dei genitori, che devono essere capaci, cosa difficilissima, di lasciarti libero e, nello stesso tempo, di indirizzarti. Perchè se poi credi in te stesso, bè, la vita è decisamente più semplice. Che è vero che l’atteggiamento attira il successo: devi essere preparato, studiare, farti il mazzo tanto. Ma se non credi in quello che vedi nello specchio, non ci crederanno neanche gli altri. E poi, poi devi essere te stesso. Cosa ancora più difficile. Viviamo in un mondo che, grazie alla continua interconnessione, offre un sacco di modelli, lì, pronti da copiare. Ma nello stesso momento che copiamo un altro, ci stiamo limitando. Gli altri devono essere un riferimento, ok, spronarci ad essere migliori, ma noi dobbiamo essere modelli di noi stessi. Cercare di capire quali sono i nostri talenti, ecco su cosa dobbiamo concentrarci. Perchè ognuno di noi ne ha, tanti, pochi, non importa, ma vanno fatti fruttare.
Dobbiamo crederci, crederci e ancora crederci. E allora sì che raccoglieremo i risultati, certo che li raccoglieremo, e saranno molti di più di quelli che pensavamo.
Davvero.
Il Gianni nazionale
Non so come andrà a finire sabato sera, ma per me Gianni Morandi è il vincitore dell’edizione di quest’anno del festival di Sanremo. Energia, voglia di vivere, una voce che è quella di un ventenne e una canzone che non schiaccia l’occhiolino a nessuno. Non una furba dance che entra subito nella testa, non il virtuosismo da atmosfera che ti da i brividi e neanche una melodia per stare al passo coi tempi. No. Una canzone di Gianni Morandi, che ricorda “fatti mandare dalla mamma”, che sa di anni ‘60, che ti piace perché vera. E lui scende le scale vestito come sempre, come ci si vestiva a Sanremo trent’anni fa, senza voler stupire con look inediti, completi fluidi, nude look improbabili. La ciliegina, e che ciliegina!, è l’insuperabile Jovanotti, che migliora con l’età e che farebbe ballare un bradipo. Fantastico.
Canzoni
Ci sono canzoni che ci calzano a pennello, perché i loro testi sono l’immagine di ciò che abbiamo vissuto o dei sentimenti che proviamo. “Sei tu” di Fabrizio Moro è una di queste, una poesia di emozioni semplici ma preziose. Perché incontrare una persona che ti ama per ciò che sei, che ti incoraggia e ti sprona, che conosce le tue ombre e le se trasformare in sole è una fortuna che non va mai data per scontata. A me è successo, quasi trent’anni fa. Ed è stato l’incontro che mi ha cambiato, perché lui mi ha insegnato a volermi bene semplicemente amandomi. Così ascolto Moro cantare e mi commuovo. Che sto invecchiando e ho la lacrima facile. Ma ho imparato che le emozioni vanno espresse e non trattenute, perché sanno di verità. E la verità è un bene troppo prezioso per essere nascosto.
Ipocondriaci
Mi piacerebbe che si tornasse a parlare del tempo. Il meteo intendo. Sapete come quando a scuola ci insegnavano l’inglese e ci dicevano che questo è uno degli argomenti di conversazione preferito dai britannici? Vero o no, a me piacerebbe tornare a parlare di altro. Sì perchè oggi tutti ti parlano di salute e dei loro malanni. Ci sono alcune persone che sono monoargomento. Dai, sarà capitato anche a voi. Quelle che, immancabilmente, se ti sfugge un “come stai?” iniziano a snocciolare, con dovizia di particolari, tutta una serie di patologie, personali e dei familiari, che ti chiedi come facciano ad essere ancora in vita. Li conosco ormai e cerco di evitare la domanda, ma a volte sfugge, che si sa, chiedere come va fa parte dei convenevoli e non sempre sottintende un reale interesse alla salute altrui. Ci sono poi quelli che hanno sempre il disturbi che hai tu, più grave però. Se confidi un mal di testa, loro sono affetti da cefalea con aura da anni. Se hai mal di stomaco, sono reduci da una gastroscopia o peggio una colon, che ti raccontano, ovviamente, fino all’ultimo diverticolo. Se hai mal di schiena, hanno appena scoperto una protusione discale che li costringerà a infinite terapie. Ricordate Tafazzi? Ecco, quando mi parlate di queste cose al telefono, sappiate che faccio esattamente gli stessi gesti, più qualche scongiuro che non si sa mai. A questi, che esistono dalla notte dei tempi, si aggiungono gli ipocondriaci da Covid. Come va? Ho fatto la terza dose. Ma lo sai che tizio è positivo? Ho un crampo ricorrente da mesi, sarà stato il vaccino. E così via. Ma parlare un po’ di figa, no? Pensare in maniera ottimistica mai? (non positiva, che subito, a sentire la parola, tutti fanno un passo indietro e ti guardano male). Dimenticavo i necrologi ambulanti. Quelli che ti dicono per prima cosa chi è morto, chi sta malissimo, chi ha un male incurabile. Sempre. Ogni volta che li incontri. E dopo, ma solo dopo, come nulla fosse iniziano a parlare di altro. Sono come quelli che postano sui social la posizione, tipo ospedale o pronto soccorso, senza aggiungere nulla, in modo che tutti possano commentare “cosa è successo? ma come stai” e loro possano così raccontare tutte le loro disavventure mediche. Le malattie sono democratiche e prima o poi dovremo lasciare questo mondo, è l’unica certezza che abbiamo. Nel frattempo godiamocela e cerchiamo, nel limite del possibile, di non ammorbare chi ci circonda.
Ricca
Negli ultimi dieci anni ho guadagnato un sacco. Dal momento in cui ho iniziato a salire sul palco in modo più serio e professionale, tutto è cambiato. La mia vita voglio dire. Ho conosciuto cantanti, attori, scrittori, medici, sanitari, giornalisti, professionisti dei settori più vari. E, ogni volta, ho portato a casa un risultato inaspettato. Mi sono arricchita come mai avrei pensato, proprio nel momento in cui ho iniziato a fare ciò che amo dì più e, quindi, divertendomi e non accorgendomi della fatica. Ovviamente non parlo dì soldi. No. Il mio conto in banca è sempre lo stesso e, dati i tempi, bene così. Mi sono arricchita io, dentro intendo. Una ricchezza che non conosce inflazione o svalutazione, ma che può solo generare nuova ricchezza. Perché ogni incontro mi ha insegnato qualche cosa dì nuovo, ogni persona mi ha dato nuove chiavi per interpretare il mondo e io sono diventata grande grazie a loro. Grazie a tutti voi, anche qui sui social, per il continuo confronto che genera energia, emozioni, cultura. Tutto possibile perché ho seguito una regola d’oro. Ascoltare, senza pretendere di sapere tutto, anzi con l’atteggiamento socratico del so di non sapere. E ascoltando, pian piano, ho imparato tantissimo e mi sono arricchita. Niente potrebbe farmi sentire più forte e fiera, nessun bene materiale, nessuna ricchezza. Grazie, davvero.