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cricolli

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Letterina

Caro Babbo Natale, ecco la mia letterina…e visto che sono precisa ma esosa, per semplificarti il compito l’ho messa in ordine alfabetico…quindi sotto l’albero vorrei…
Amici, quei due che mi hai regalato quest’anno…non ne voglio di nuovi, ma quelli per sempre
Birra, rossa e corposa, un po’ di scorta per i momenti in cui decisamente ce vo’
Candele, per illuminare e scaldare ogni giorno
Dubbi, qualcuno, ma solo davanti all’armadio la mattina
Emozioni, quelle che lui non sa nemmeno di darmi…
Fogli, per scrivere i pensieri e le frasi che non ho il coraggio di dire
Gelato, al cioccolato, nella cialda, con sopra gli smarties…yesss
Humor, perchè qui ci si prende tutti troppo sul serio
Idee, che non mi mancano mai, ma un po’ di scorta così da regalarle anche agli altri
Libri, ovunque e di ogni tipo, per la mia anima e il mio cuore
Mare, mare e ancora mare, suoni, profumi, colori…
Neve, perché sciare è il mio più grande atto di libertà
Occasioni, per reinventarmi ogni giorno
Peccati, eddai qualcuno, se no che noia!
Quid, ovvero quel particolare che rende speciale questa mia vita…ancora ancora…
Risate, fragorose e sfacciate…che le rughe d’espressione per le troppe risate sono un vanto
Sole, nel cielo, nel cuore, ovunque
Tenacia, perché con l’età a volte comincio a cedere il passo
U2, che un biglietto potresti però portarmelo eh..
Vino, rosso e corposo..vedi alla voce birra
Z….visto che con la zeta non ho richieste, mi gioco il jolly e banalmente duplico la A, amore, quello che lascia senza respiro e che ti fa dire Oh my God…
Esagerata??

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Thelma e Louise

E poi arrivano quelle giornate in cui non li reggi più. Tutti. I bambini che discutono tra loro e si menano, che li chiami e non vengono, e che poi in compenso hanno un disperato bisogno di te mentre sei sotto la doccia o al telefono. Lui che per la millesima volta ti chiede dove è il sale, che è nello stesso posto da dodici anni, che gli racconti la giornata e chiaramente non ti ascolta perché lasci il discorso a metà e manco se ne accorge. I tuoi, che ti chiamano con millimetrica precisione nei momenti meno opportuni, mentre al mattino cerchi di far ripartire la famiglia, o alla sera alle otto in punto che ti siedi a tavola, e sempre per bisogni fondamentali, tipo come si resetta il decoder e guai a fare ffff…..ecco arrivano queste giornate, per tutte noi, e allora basta. Prendi la borsa e decidi di andare via. Per un po’. Che si arrangino tutti. Che ti vengano a cercare. La mamma si è rotta. E ti senti già meglio. Scendi le scale di corsa, apri il garage, sali in macchina, infili la chiave nella toppa e respiri. Adesso o mai più. Adesso. E ti senti come Thelma e Louise, via, finché l’auto non si ferma. In moto. Sicurissima…Anzi no. Il mondo ti crolla addosso in un secondo. In riserva. Sparata. Che al massimo arrivi al Bennet per fare il pieno. Ma così non vale. Se ti fermi lì, poi ti viene in mente che hai finito il latte, e manca anche il prosciutto, e le uova…e anche stavolta ti hanno fregato…desperate housewife altroché Thelma e Louise…

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Dire fare baciare…..

Dire fare baciare lettera testamento.
Dire, la verità. Sempre. Anche se fa male. Perché di balle è pieno questo mondo e la sensazione di essere costantemente fregati aleggia nell’aria. E allora la controtendenza di essere sinceri é l’arma migliore nei confronti dei furbetti. E non solo. Ammettere la realtà è il coraggio del nostro vivere quotidiano.
Fare, l’amore. Nel senso più ampio del termine. Dare e ricevere amore, accettarlo e diffonderlo. E non è che è domenica e ho la vocazione al pulpito, la fede qui non c’entra nulla. Parlo della gioia di stare insieme, di condividere, di togliersi maschere e orpelli, di essere se stessi con l’altro e di amarsi totalmente. Fare l’amore ogni giorno è l’undicesimo comandamento che sottende tutti gli altri.
Baciare, tanto. I miei bambini, che hanno lo stesso profumo di quando sono nati, così unico e particolare, le guance morbide e lisce, strafogarli di baci, che non sono mai abbastanza. Anche quando loro ti allontanano e ti dicono “eddai mamma, non sono mica più piccolo”, e hanno ragione. Baciare lui, ogni volta che si può, che tanto sai che non riuscirai mai a pareggiare il numero di baci che ti ha dato lui, e neanche l’immenso bene con cui ti coccola. Ma vale la pena provare.
Lettera, ad un amico. Che tutti dobbiamo scrivere. Ad un amico, alla mamma, al nonno, al fratello, una lettera breve, lunga, pasticciata. Ma una lettera. Foglio e penna nel tempo di whatsapp, tempo dedicato a imprimere sulla carta i segni della nostra grafia e le pulsazioni del nostro cuore, che non riusciremo mai ad andare dritti, la riga sarà sempre verso l’alto o il basso, ma in quelle righe ci saremo noi. Penna e calamaio per ritrovare la lentezza profonda del sentimento.
Testamento. Il mio. Che mi chiedo spesso cosa resterà di me in questo mondo. Un pittore, uno scrittore, un attore, lasciano manufatti che parleranno di loro, io non ho il dono dell’arte e sono solo una donna. Vorrei lasciare il mio sorriso, e che fosse contagioso, l’idea che si possa sempre guardare alla realtà con energia rinnovata, il coraggio di rialzarsi una dieci cento volte. Sempre con il sorriso, vero, profondo, regalo a se stessi e agli altri. Smile!

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Specchio

Questa sera ho incrociato il mio specchio dopo essermi struccata e aver lavato i denti. Un incontro ravvicinato del terzo tipo. Di quelli che ti chiedi se Halloween è stasera e sei già truccata per il party. Che non capisci perché. Mascherine, creme e cremine, attenzioni e tanto amore, niente. Sono una positiva e penso, se manco avessi fatto tutto questo, chissà. Ma stasera l’occhiaia é come quella di Lerch degli Addams, brufoletti da adolescenza tardiva, come quella che in effetti stai vivendo psicologicamente, rughe e rughette. Che ti dicono essere d’espressione, e cambia espressione allora, che così ad impressionarsi è solo chi vive con te. Vorresti fare una maschera, magari fa effetto, ma insomma dai già i primi freddi e il pigiama sexi ha lasciato posto al tutone, ci manca pure che ti presenti con la biacca sulla faccia e di sicuro non lo svegli dal pre sonno sul divano. Ecco ci vorrebbe Photoshop, non lo hanno ancora inventato un correttore per lo specchio? Perché sapete come aumenterebbe l’autostima? Che la faccia non si cambia e meno male, ma vedersi sempre giovani aiuterebbe. E non dite che non è così, che io quelle che dicono che non importano le rughe, che stanno bene così, che ne sono fiere, ma non ci credo neanche morta. Oppure ci vorrebbe il buon vecchio specchio della Regina di Biancaneve, che ti dice mi piace tipo selfie su Facebook, anche qui senza il pulsante non mi piace. Comunque ecco, per Natale, vorrei un bello specchio da favola, che mi faccia i complimenti la mattina e soprattutto la sera, e che non si permetta di nominare Biancaneve, che le facce smorte sono più pericolose della vecchietta che porge la mela….

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Insonnia

Le albe insonni. Quelle che passi in un attimo dal sogno luminoso di spiagge brasiliane ai pensieri del tuo presente e nel letto, occhi spalancati, capisci che tanto vale alzarsi. Quelle che davanti a un caffè, troppo presto per essere colazione, troppo tardi per essere spuntino della notte, e già sai che alle nove sarai pronta per l’aperitivo. Quelle che la casa è fredda, la felpa sulle spalle, Bridget Jones style, e bisogna impegnare la mente, perché il mattino presto è peggio della notte tarda, la mente è fresca e i pensieri nitidi come una giornata di sole e vento. Quelle che ti metti ai fornelli, che l’aspirapolvere è troppo presto, e prepari per i prossimi tre giorni, e intanto pensi che hanno ragione i tuoi, che quando si sveglieranno invece di dire “che profumino” si tapperanno il naso, che alle sette del mattino il profumo di minestrone e arrosto anche no. Quelle che apri gli album delle fotografie e quando lo fai è perché vuoi davvero sprofondare, che chissà perché sono ricordi splendidi ma ti viene il magone. Quelle che fino a due anni fa non succedevano mai, sempre dormito fino al trillo della sveglia, e adesso ti ricordano che il tempo passa, come il mal di schiena e le rughe di fianco agli occhi, e allora senti la vita ancora più impellente e vorresti assaporarla in ogni attimo. Quelle che poi, alla fine, mentre aspetti il sole che sorga, ti ritrovi a scrivere, frasi, parole, canzoni, pensieri, che se le lettere fossero centesimi saresti Paperon de’ Paperoni eppure non ne hai mai abbastanza. Che solo la carta ti consola e nelle albe insonni vivi vite altrimenti impossibili e un po’ ci credi. E poi da un corridoio spunta uno dei due, che chissà perché quando ti alzi così presto, anche se non fai rumore, uno dei due arriva, un gambale dei pantaloni del pigiama tirato su, gli occhi chiusi e i capelli arruffati, il passo instabile, il profumo irresistibile che solo loro hanno, ti viene vicino, ti si appoggia sul petto e in un sussurro ti dice “bacio mamma” e allora comincia un’altra splendida giornata.

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Breakfast

Colazione continentale in un albergo di Barcellona. Un po’ di Europa assonnata nella stessa stanza. Che se Carlo Cattaneo potesse essere seduto al tuo posto forse ripenserebbe alla sua idea di Unione Europea. Perché siamo diversi, ma tanto, e lo capisci dall’approccio al tavolo del breakfast. Sei lì con il tuo piatto che ti guardi intorno e arrivano due o tre tedeschi. Ovviamente lo capisci già dall’abito, che per quanto la globalizzazione possa uniformarci, il sandalo e la calza sono crucchi. Prendono il pane, lo infilano nel tostapane, e intanto si servono di uova, bacon, pomodori, precisi, veloci, in silenzio. E ogni tanto controllano il tostapane, che tu avevi già pensato di fregare la fetta nel mentre, ma basta uno sguardo e ti senti piccola furba italiana. Superiorità ariana. Nel mentre arriva una coppia francese. Lei smunta, gonna, ballerine e cardigan (notate, le francesi a colazione hanno tutte il golfino aperto o sulle spalle, Chanel docet), lui borsello, camicia, occhiali. Bisbigliano, poco pane imburrato, marmellatina, café au lait, mon dieu, sembrano pronti per una riunione di lavoro e non alla vida della Rambla. Noblesse oblige. Poi entra una famiglia inglese, che dopo i tedeschi e i francesi ti sono immediatamente più simpatici. Ovviamente giocano in casa con le scramble eggs, parlano la lingua universale, eppure la mamma è pettinata ancora come Lady Diana il giorno del fidanzamento e non capisci se lo fanno apposta ad essere démodé o se è dna. Lui ordina una birra, che in effetti col bacon va a nozze, peccato siano le nove del mattino, ma questo chiarisce perché anche a dicembre li vedi in giro con la maglietta del Liverpool belli bianchi e rossi. Imperialismo anglosassone. Sei lì che versi il latte sui corn flakes e ti arriva una ventata di profumo Chanel, che riempie la sala. È il nuovo turista, il russo con la bionda. Che anche mentre si serve una mini brioche è pronta per la prima della Scala. Vestitino micro, capello perfetto, trucco con cerone e labbra rosse, ballerine e comunque è venti centimetri più di te. Quello a fianco, ovviamente, non è Ivan Drago, ma le arriva alle spalle, tarchiato, e le scatta continuamente fotografie, anche mentre con voluttuosità si serve lo yogurt sulle fragole. Serebro dilaganti. E poi, quando ormai hai quasi finito, cercando di bisbigliare per uniformarti all’ambiente molto glamour, arrivano gli italiani. Che come in ogni barzelletta che si rispetti entrano in scena per ultimi, ma lasciano il segno. Un po’ imbarazzati davanti a tanto ben di dio, che a noi basta cappuccino e brioche, piluccano qua e là, avanti e indietro un tot di volte, si chiamano, hai preso il salame? Aspetta che faccio una foto al bacon, dai un selfie…Sto caffè però fa schifo, brodaglia…decibel italiano, che solo gli americani stanno al passo, ma qui si parla di Europa e lo yankee lo lasciamo al suo cappellino, shorts, dimensioni extrasize, risata contagiosa. Caciaroni sì, facciamo amicizia con la cameriera, parliamo in perfetto spagnolo che basta aggiungere una s in fondo, e da nord a sud abbiamo il dna del pressapochista. Ebbene sì, orgoglio nazionalista…..

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Scuola

Si ricomincia. Cartelle pronte, un quintale l’una, che dobbiamo riportare la nostra vita sotto i banchi e un certo peso tutto questo ce l’ha. Siamo rodati ormai, elementari in dirittura d’arrivo, e oggi tutti diremo che sembra ieri che salivano la scalinata per la prima volta. Adesso sono alti come me, che non è un gran traguardo in effetti, e con fare spavaldo rivendicano la loro autonomia. Andiamo a scuola da soli, non vorrai mica accompagnarci, non siamo piccoli. E tu, che mamma moderna, impegnata, scevra da lacrime e pateticismi, che avevi aspettato anni di sentire questa frase, bè un po’ ci rimani male. Che a noi mamme il ruolo di autista o di costumista per la palestra ci rompe, ma ci legittima pure. Piccoli gesti, abitudini consolidate, essere mamma per anni è qualcosa di estremamente fisico, faticoso, lavali, vestili, imboccali, prendili in braccio, oltre che naturalmente necessitare di una organizzazione che il governo di una nazione è più semplice. Le mamme lo sanno, hanno in mano l’agenda, reale o mentale, duemila memo per nonni o baby sitter, che senza di loro non ce la possiamo fare. E adesso un po’ questa fisicità mi manca, si vestono e si lavano da soli, mangiano da soli, stanno (bene) da soli, in casa ore e non sai nemmeno se ci sono, a parte quando si menano, ma anche lì in fondo se la risolvono da soli. E tu ti ritrovi promossa, non sei più manovalanza pura, ma ti rimane il compito gestionale, organizzativo, che include ovviamente la tua dolce metà, a cui invece non deve essere richiesto di programmare, sia mai, ma di eseguire, a preciso comando. Che se non specifichi ti chiama mille volte. Questione di ruoli, dicono. L’ennesima fregatura, dico. Che a me sta storia che l’uomo pensa al massimo una cosa per volta e noi invece siamo multitasking mi sa tanto dell’ennesimo regalo di Eva, che infatti pensando troppo ci ha rovinato in partenza. Ma così è signore, quindi…pronte, via! Buon anno scolastico a tutte le mamme sclero come me!

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Vetro

Solita sfortuna. Ho rotto lo schermo del cellulare. L’avevo in mano e, oops, é caduto. L’ho raccolto, girato e non ci volevo credere. Molto gotico, scheggiato quasi in maniera artistica, un’opera d’arte di valore, dato quello che mi costerà ripararlo, per non parlare della mia fedina da ripulire dopo le inevitabili incursioni tra i santi del mese. Che poi io non ho mai avuto guai con il cellulare. A parte quella volta che ho comperato una cover molto tigre del ribaltabile, maculata con borchie, di una finezza disarmante, che aveva la caratteristica di cuocere il telefono. Era una cover hot in tutti i sensi. Era sempre rovente e nel timore di rovinarlo ho deciso di toglierla. Eh, una parola. Saldata era. Alla fine maniere forti, tagliacarte tra cover e telefono e tutto un lato bello rovinato. Va bè. Per una volta. No, bè, poi aspetta. Poi c’è il capitolo subacqueo. Tuffo carpiato nel water dell’autogrill, che dici ai tuoi figli di non toccare le maniglie della porta dei bagni e tu ti ritrovi con un avambraccio dentro alla tazza con una prontezza di riflessi degna di un supereroe. Che poi voi donne mi capite, vero? Perché gli uomini, tasca davanti tasca dietro fa lo stesso, ma noi no. Jeans attillato che per allacciarlo ti sei dovuta sdraiare sul letto, di quelli che per forza ti tirano su il lato B, è imbrigliato in una morsa, e telefono infilato nella tasca posteriore. Di solito destra. Più veloce da prendere, come una pistola nella fondina. E così garantito che nel momento del bisogno sguscia fuori che è un piacere, e per due giorni phon in mano per rifargli la messa in piega. Ma io ho fatto di meglio. Sciatrice che se la tira pure, abbigliamento tecnico, occhiale Top Gun, e cellulare infilato nel casco, per parlare con le mani libere. Pure mentre sei seduta al tavolino esterno del bar, al sole, e approfitti della pausa per una telefonata. Davanti a una bella scodella di minestrone fumante con würstel. Pluf. Gemusesuppe pure per il telefono. E per il malaugurato dall’altra parte della cornetta che non sa di aver vissuto un’esperienza mistica. Per una settimana ho avuto nella borsa il profumo della cucina della nonna, tra broccoli, patate e piselli. Ah bè poi a parte quella volta che l’ho lasciato sul carrello del metal detector a Berlino e mi hanno chiamata con il dlin dlon “Damen und Herren….”, e poi a parte le mille volte che mi è caduto mentre ravanavo in borsa…ecco bè a parte tutto il cellulare e l’uso che ne facciamo rispecchia il nostro essere….nel mio caso, bè, traete voi le debite conclusioni….

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Sestri

E gira e rigira arriva l’estate e ci troviamo qui. Che non ti senti a posto se una puntatina a Sestri non la fai. Se non respiri l’aria della Baia. Se non mangi la focaccia e la farinata. Se non passi dai Liguria e ti senti sedici anni sul muretto ad aspettare di vedere un paio di occhi verdi. Se non fai un salto al Citto che non è più il Citto di venti anni fa, ma la salita ai Cappuccini ti fa volare nel tempo. Se non cammini nel Carugio a testa in su, a cercare un pezzo di cielo tra le case colorate. Se non arrivi al porto e cerchi la Piscina dei Castelli, e ancora senti la musica della Hanoa Hanoa, del Carnevale di ferragosto, delle serate, tante serate, a ballare sugli scogli. Che non c’è più e fa un po’ tristezza. Se non mangi dal Conte, se non passi dal Gourmet e dal Bistrò, che sembra adesso la pubblicità di tanti locali, ma sono i luoghi del cuore che in un nome racchiudono il senso di tante estati. Se non arrivi a Sant’Anna, le ondone, come a Riva, senza fiato, senza forza, solo quella del mare che ami tanto. Se non giri per Largo Colombo, tanti ricordi, avanti indietro mille volte, e poi ci scappa un caffè da Bocchia. Se non passeggi sulla riva, nella baia grande, e li rivedi tutti lì, i tuoi amici di una vita, la tua infanzia, la tua adolescenza, il tuo pancione, i tuoi bimbi che fanno i castelli e che tra un po’ ricominceranno questo ciclo. Perché Sestri è l’estate, più vita in due mesi che in tutto l’anno, perché è magia e fiaba, sempre e comunque, perché la migliore favola per il premio Andersen è la fotografia della baia al tramonto, una barca che entra, le luci che si accendono, nel silenzio i gabbiani sugli scogli.

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Think

Sondaggio casalingo a tavola. Idea malsana di una nonna a caccia di idee per far divertire i nipoti. Pregi e difetti della mamma, cioè io. Come dire spariamo sulla Croce Rossa e non pensiamoci più. La mamma urla. Ecco sì, in effetti i decibel sono spesso eccessivi. Ma quando vivi con tre uomini coalizzati non hai scelta. Il ricatto vale fino a un certo punto, il ragionamento logico, bè avrebbe senso con esseri che seguono la tua logica, non quella del tantocèlamammachelofaccioafare, le maniere forti anche no, della serie mi faccio più male io. E allora via alle urla, che non ottengo niente lo stesso ma almeno mi sfogo. Poi? Altri difetti? É pazzerella. Canta. Balla. Guida a zig zag. Insomma mi stanno dando della fuori di melone. Che tutti i torti non ce li hanno. Secondo me vogliono vendicarsi per la tavoletta del water. Una storia infame di una donna senza scrupoli. Che in una mattina d’inverno si trova a pulire il bagno. Viakal, Cif e straccio. E, tanto per cambiare, musica a palla nella casa deserta. Think di Aretha Franklin. Che non puoi non ballare, si muovono anche i pali, è energia vibrante e a te piace tanto. Ma tanto. E nell’enfasi del momento ti ritrovi sul water, il viakal in una mano, lo straccio nell’altra a sculettare e a cantare a squarciagola. Spettacolo agghiacciante. Ma tanto sei sola e non è la prima volta. Lo facevi sempre da ragazza nel bagno della taverna, che ha pure di fronte un mega specchio. Si, papà, ero io che spannavo le viti della tavoletta. Outing tardivo di una recidiva. E così succede in casa mia. Fa pure crac. Con aria colpevole scendo dal cubo water e vedo di rimediare. Impossibile. Allora opto per la nonchalance. Magari non se ne accorge. 17.30, famiglia felice a casa. I bimbi in cameretta, io in studio, il padre di famiglia che torna dal lavoro. Ciao cara, ciao caro, bimbi un bacio. Entra in bagno e l’idillio si rompe. Si passa dal tono Oxford snob a porto mercantile in un nano secondo, con bestemmia incorporata. E lì capisci che l’amore di madre non è poi così sconfinato. Fingi di non sapere, lui dà la colpa ai bimbi, un mazzo tanto, e tu minimizzi ma non confessi. La regola base della sopravvivenza di noi donne, negare sempre tutto, anche l’evidenza. Ti senti un po’ infame ma sai che è a fin di bene, il tuo. E che rimedierai con una coccola in più, che loro ti perdoneranno. E invece no. Eccoli qui a spiattellare a tua madre tutte le piccole follie della tua esistenza, le chat, la musica, le parolacce, la guida spericolata. E tu li guardi e in fondo ti viene da ridere, perché hanno ragione e perché sotto sotto speri che anche loro diventeranno così…