Fine luglio. Un pomeriggio caldo in una grande città. Seduta in un ufficio come tanti anche se come tanti non è. A fare due chiacchiere con un amico di gioventù. Uno di quelli con cui hai condiviso gli esami di università, le loro difficoltà e la passione per la storia, per il passato, per la cultura. Lui che ti guarda e ti ricorda quanto era dura, essere un po’ dei “nerd” a studiare greco e latino, epigrafia e filologia. E quanto entusiasmo però ci animava ogni giorno. Non ci vediamo da 20 anni, anzi 21. È ancora lui a ricordarlo. Dall’esame di storia greca ti dice. Mamma mia. Avevo 21 anni, riccioli biondi su uno scricciolo, tanti sogni e quel pugno di amici. Che non ho più rivisto da allora. Perché ognuno ha seguito strade diverse. Scelte diverse. Eppure lui da una parte del tavolo, io dall’altra, siamo sempre quei due chiacchieroni che si passavano gli appunti, e i suoi occhi sono sempre gli stessi, la sua voce, il suo straordinario entusiasmo che l’ha portato davvero lontano. Uguale ad allora. Perché le persone in gamba, quelle davvero in gamba intendo, non cambiano. Rimangono semplici anche nella grandezza. E lui mi guarda e mi dice “Sai Cristina, erano belli gli anni all’università. Ma non rimpiango i vent’anni. Nei miei quaranta sto benissimo, perché sono più forte, più sicuro, più consapevole”. E mi sorride. Come faceva sotto i portici a Pavia. Un sorriso puro. Che riempie il cuore. Ha ragione. Questi quaranta non sono niente male. Coscientemente incoscienti, nulla più da dover dimostrare, un po’ di futuro ancora da costruire, un po’ meno energia ma una volontà mai repressa. Coscientemente incoscienti. Sì. Proprio così.
Un sorriso, una carezza, un bacio sulla fronte
Vorrei spiegartele le ragioni di questo amore. Perché tu non chieda più, come oggi, di fronte ad un mare di cristallo, se ancora ti amo. Certo che ti amo. Ti amo perché abbiamo percorso insieme più di metà della nostra vita, anni divertenti, anni duri, anni ricchi di progetti, di gioie e di inevitabili dolori. E in ogni scelta il tuo sorriso, una carezza, un bacio sulla fronte. Ti amo perché i nostri figli, ormai ragazzi, mi parlano di noi, del nostro imparare ad essere genitori, dei pannolini, le pappe, le notti insonni, le corse al pronto soccorso, il primo dentino, gli anni come in un frullatore e le rinunce, in fondo mai pesanti, ma pur sempre rinunce. E in ogni passo insieme a loro, il tuo sorriso, una carezza, un bacio sulla fronte. Ti amo perché eri con me in ogni esame all’università, il giorno della mia laurea, mentre mettevo al mondo i nostri figli, nel mio dolore senza fine per il bimbo mai nato, in ognuna delle sfide che mi invento per la mia insaziabile voglia di vivere e di mettermi alla prova e nelle inevitabili delusioni. E in ogni caduta e ripresa, il tuo sorriso, una carezza, un bacio sulla fronte. Ti amo, ed è banale forse, ma la vita è anche banalità, ti amo perché sei ogni giorno più bello, i capelli che da lunghi sono ora corti, un po’ sale e pepe, le tue spalle larghe e le tue mani eleganti, affusolate, la tua erre e il tuo umorismo, mai stonato, sempre pungente. E in ogni risata insieme, il tuo sorriso, una carezza, un bacio sulla fronte. Ti amo perché sei tu. Perché senza di te il mio mondo sarebbe senza colori, il mio passato senza senso, il mio presente pieno di dubbi, il mio futuro senza progetti. Non lo so se ti basta questa risposta. Dovrai fidarti di me. Ancora una volta. Con il tuo sorriso, una carezza, un bacio sulla fronte.
Un uomo
Ho ascoltato il mare. Risuonava come un tuono dentro un arco naturale. Non aveva la pacifica dolcezza dell’onda che si infrange sulla spiaggia. E nemmeno la carezzevole melodia dello sciabordare sulla chiglia di una nave. Era forte, potente. Come il tuono che precede la tempesta. O un aeroplano che vola radente. L’ho ascoltato e poi gli ho raccontato una storia. Così, a voce alta. Seduta su uno scoglio, le spalle alla spiaggia, eravamo solo lui ed io, e la mia voce si perdeva nelle onde bianche. Gli ho raccontato di un uomo che cercava il suo destino. Un uomo come tanti, e che come tanti era alla ricerca di risposte alle troppe domande che la vita, se la ascolti, ti rivolge. Le aveva cercate le risposte. Nei libri, tanti, tantissimi libri. Nei viaggi, tra civiltà diverse, sotto la pioggia scozzese e nel deserto americano, tra i vicoli di Casablanca e percorrendo con lo sguardo le risaie di Bali. Le aveva cercate nelle donne, così complesse, affascinanti, diverse, e poi nella donna che era sembrato il pezzo mancante al suo puzzle. Nella vita, che era nata da lui e per lui, e in ogni sfumatura del sorriso che i suoi figli gli regalavano. Ma ad ogni risposta c’era una nuova domanda, ad ogni vittoria una sfida differente. E adesso era lì. Seduto di fronte al mare. Nello zaino i suoi anni, i suoi malanni, le sue esperienze, i vizi e le poche virtù. Sai, mare, quest’uomo non le aveva le risposte, così come non le ho io. Eppure davanti a queste onde tutti i dubbi sembrano svanire. Non ci sono soluzioni. No. Nello zaino di quell’uomo e neanche nella mia borsetta. Ma il mare inghiotte la paura, le domande, i se e i perché. Il mare ti risponde con il suo tuonare che copre tutto e in fondo viene a dirti che nella vita devi solo nuotare e stare a galla. Che ci sarà sempre un’onda troppo alta. O uno scoglio che non ti aspetti. Ma anche che, se non ti tuffi, non potrai mai dire di aver davvero vissuto.
Sailing
Traghetto per la Sardegna. Imbarco la mattina presto dal molo di Livorno. In coda con l’auto le prime scene della famiglia italiana. Lei incazzata prima ancora di colazione, la bimba di cinque mesi in braccio e un’espressione che neanche la Gorgone. Lui zerbino, sudato, il principe degli Omen, tira fuori il gioco, no non quello lì, quello rosa, ma no quello è fuxia, e dammi il ciuccio, nooo non toccarlo con le mani, prendila un attimo tu, no non così che le fai male al braccio, niente, sei un disastro. Piega e contropiega di prima mattina. Che noi donne col pupo in braccio diamo davvero il peggio di noi. Sul traghetto. In pole a bordo piscina, lettino crema e musica in filodiffusione. Peccato che sia solo musica tipo despasito e fratelli, con una biondina di sedici anni che fa andare il culetto per il beneficio di mio marito & Co., meno male non sono gelosa, gli ricordo solo di recuperare gli occhi prima di scendere che deve guidare lui, non peraltro. Bordo piscina in attesa che venga aperta. Tutti ad aspettare. Compreso l’uomo che non deve chiedere mai. Che tanto beccherebbe solo due di picche. Ma lui è fiducioso. Sdraiato sul bordo della piscina, uno e sessanta, il fisico da professionista dell’aperitivo, jeans tagliati, maglietta arrotolata sotto la testa. Donne sono qui, fate di me ciò che volete. Piscina aperta, finalmente. Ed eccolo. L’impaziente. Dentro con un triplo bomba carpiato direttamente con i jeans. Che fosse uno col fisico da tronista gli daresti del tamarro, ma visto che tiene la panza ti mette solo tanta allegria. Abbozza pure la bracciata stile Magnini, peccato che la pozza sia tre metri per due e nel frattempo un tot di bimbi festanti gli siamo saltati in testa. Dopo pranzo, dopo il bagno, dopo l’ennesima birra di quelli che hanno preso la traversata per l’october fest, scatta l’ora abbiocco. E io scrivo. Circondata da un’umanità in relax. L’isola d’Elba di fronte. E il mare. Blu blu. Senza fine. E meno male non si può andare a prua. Che altrimenti Rose e Jack e la foto rito stile Titanic con sto parterre di sicuro non sarebbe mancata….
Se
Se l’amore fosse un viaggio, il mio sarebbe un trekking senza comodità, zaino in spalla e voglia di camminare, sudare, vedere, conoscere, vivere, respirare.
Se l’amore fosse una barca, la mia sarebbe una vela senza rotta, a cui piace il vento teso e il cui senso non è l’approdo ma la navigazione stessa.
Se l’amore fosse una ricetta, la mia sarebbe leggera ma piccante, originale ma semplice, di quelle che una volta che le assaggi ti sporchi le guance come i bimbi e dici “ancora, ancora”.
Se l’amore fosse un palazzo, il mio sarebbe una casa grande, con pochi mobili ma tanti libri, una di quelle che non arredi prima ma costruisci pian piano, ogni giorno, che riempi di vita e che sa di vita.
Se l’amore fosse un’automobile, neanche a dirlo la mia sarebbe una macchina sportiva, veloce, impegnativa, che ti fa correre sul filo del rasoio e che ti da adrenalina da vendere.
Se l’amore fosse un vestito, il mio sarebbe un abito nero, senza orpelli, ma con una scollatura vertiginosa sulla schiena, di quelle che non ti aspetti, che unisce classe e trasgressione, serietà e originalità, ovviamente su un tacco 12 che ti fa traballare ma non ti lascia scampo.
Se l’amore fosse una canzone, la mia sarebbe un blues rock con un sax a smuoverti dentro, con le note che risuonano anche nel silenzio e le parole che non riesci a smettere di cantare.
Se l’amore fossi tu, saresti esattamente come sei. Che ad inventarti ci vorrebbe una vita. E io invece voglio viverti. Adesso.
Sì, viaggiare…
Un paio di pantaloni, una maglietta, un cambio intimo, un vestito nero, un costume anzi due, le infradito, un paio di tacchi. Crema viso spazzolino e dentifricio. Caricabatterie del telefono. Aulin e spasmomen che viaggio sempre in compagnia. Trenta secondi per decidere di partire. 5 minuti per fare il bagaglio. Che una volta che sei in viaggio con la testa il corpo non può che seguirla. Meta, non esiste ancora. E forse questo è il bello. Partire per se stessi. Per un giorno, due tre, una settimana, una vita. A volte anche solo per qualche ora, con l’illusione di lasciare a casa tutti gli irrisolti della nostra vita. Ma il rito stesso del buttare in una borsa pezzetti di noi stessi a farci compagnia ha in sè il senso di libertà che a più riprese cerchiamo. In auto, musica a palla, tettuccio aperto, occhiali da sole e via. Senza pensare. Senza cercare. Senza un senso. Ecco una volta tanto un senso non c’è. La bellezza del viaggio, sembra la pubblicità di un’auto, non conta la metà ma il viaggio stesso. Proprio così. E ti trovi a puntare diritto verso il mare, che non potrebbe essere altrimenti in una giornata così, in cui le nuvole sono andate a riposare e il cielo è dell’azzurro dei disegni dei bambini. Il mare. Il riflesso dei raggi sulle onde, questi mille specchietti incantati che fanno sorridere l’anima prima del volto. Sì. Se potessi partire oggi andrei al mare. Mi tufferei nelle onde e lascerei che l’acqua avvolgesse tutto il corpo, lì sotto, al riparo da tutto, con la pelle d’oca, e l’azzurro tutto intorno. Se. Per oggi i se sono più forti di me. Disfo il bagaglio immaginario mi vesto e vado in ufficio. Domani. Forse. Intanto il mio viaggetto me lo sono fatta. Nella mente. E per un attimo la sensazione dell’acqua addosso c’é stata. E non era quella della doccia 😉
21 giugno
Estate. Domani. Di nuovo. L’estate sono i capelli bagnati e la pelle che sa di doposole, i piedi nella sabbia che sembrano rinascere dopo un anno nelle scarpe, la sabbia calda, e poi umida, e poi ancora calda. L’estate sono i pomodori e il loro sugo buono buono in cui pucciare il pane più mollicoso che c’è, l’insalata di riso, la focaccia, il gelato al cioccolato nero fondente, le ciliegie e il bagnun di acciughe del bistró sulla baia. L’estate sono le zanzare, il profumo di terra e acqua della mia Lomellina, la magia delle piantine di riso che sbucano dall’acqua, il vento caldo sulla faccia mentre vai in bicicletta e lasci che la vita ti scorra dentro veloce. L’estate sono le canzoni, quante canzoni, i festivalbar di una volta, i concerti di oggi, il ghiacciolo e i bikini, le infradito e il mollettone. L’estate sono le serate in cui segui il sole finché non scompare all’orizzonte e la mattina dopo sei ancora lì, stessa spiaggia, stesse onde, ad aspettare che arrivi l’alba, i cornetti freschi e il profumo del pane nel carugio, il peschereccio che rientra, e quell’odore di mare salsedine pesce nafta sudore che ti si appiccica addosso mentre corri sul molo. L’estate sono le serate di agosto a contare le stelle nel cielo dell’Appennino, le confidenze al buio, le grigliate e la birra, i temporali e quanto è bello camminare bagnati sotto l’acqua perché a ripararci sono due occhi che non ci stancheremo mai di guardare. L’estate. Eccola qui. Sarà questo e molto di più. Dentro e fuori di noi. Che l’estate sembra immobile eppure sfugge in un attimo, non troppo velocemente per non tatuare nel cuore di ognuno di noi un ricordo che la renderà unica.
Il tempo delle mele
Il primo bacio non si scorda mai. È proprio vero. Il mio risale a 28 anni fa. Non sono mai stata precoce, non perché non desiderassi applicare i consigli su dove mettere la lingua che leggevo su “Cioè”, ma perché proprio non c’era nessuno che mi filava. Vabè. Finalmente in quell’inizio estate, proprio alla fine della terza media, qualcuno si era accorto di me. E non era niente male. Non ricordo quasi nulla della storia, solo che lui era davvero carino e che ci eravamo messi insieme a Gardaland. Sciroccato dalle montagne russe, i neuroni tutti arruffati avevano provato interesse per la colli. Ed era stato love. Ovviamente mica era scattato subito il limone duro. Erano altri tempi, quelli in cui prima passeggi fianco a fianco, poi mano nella mano, bacino sulla guancia e tanta dolcezza. Fantastico. Mi viene la pelle d’oca ancora al pensiero di quel ritorno in pullman, io in braccio a lui e la sensazione di essere finalmente normale. Che le mie amiche erano già avanti anni luce. Ma in fondo poco importava. Mano nella mano con lui mi sentivo davvero come il tempo delle mele. E, che ci crediate o no, il mio primo bacio è stato figo come in quel film. Sapete la scena in cui lui le mette le cuffie in testa e parte il lento? Ecco così. Senza le cuffie ok. Ma il lento c’era. Lui non lo sapeva ballare. Come tutti i ragazzi della sua età, della nostra età. Ma poco importava. La lingua non sapeva dove metterla. E neanche io. Ma quando sei in due a volere lo stesso non è difficile trovare la sintonia. E in quella sala rumorosa, con tanti ragazzi che festeggiavano la fine delle medie, l’arrivo dell’estate, le prime birre e le sigarette di nascosto, il mio mondo si è fermato per la prima volta in un’emozione che non scorderò mai. Era l’estate del 1989. Ero una ragazzina. Ma avevo capito una cosa importante. Che due persone che si baciano, davvero, con sentimento, con voglia, per un attimo diventano un’ anima sola e ognuno scrive nel cuore dell’altro. Lo avevo capito allora, lo confermo adesso. Che di convinzioni ne ho poche, ma questa è granitica. E di sicuro la più dolce del mondo.
“Perchè scrivi solo cose tristi?” “Perché quando sono felice esco” – Luigi Tenco
In questi giorni ho capito il senso del mio scrivere. Nasce quando non trovo altro modo di vivere la miriade di sentimenti che ogni giorno mi attraversano. Quando tutto questo trambusto che mi porto dentro è compresso nel mio corpicino e tenuto a bada dal dovere, dalle buone maniere, dal controllo che la parte apollinea di me impone alle emozioni. E allora scrivo. Invento storie e sentimenti. Passioni e tirate irriverenti. E dalla penna o, meglio, dal pollice opponibile che istericamente digita sulla tastiera del mio iPhone, che tutti i miei pezzi nascono e finisco nelle note del telefono, ecco da qui fluisce e trova sfogo tutto il vaso di Pandora che mi porto dentro. Ogni tanto, poi, il silenzio. E allora lì dovete iniziare a preoccuparvi. Che se la colli non scrive è perché sta vivendo, e allora, si salvi chi può 😜
Bozze di un libro…
C’erano le mani. E c’erano le labbra. E poi c’erano i capelli e il sudore sulla pelle. C’erano gli occhi, aperti, chiusi, aperti. C’erano le carezze, che mancavano da troppo tempo, leggere prima, sempre più decise poi, che sapevano di possesso, di voglia, quasi di rabbia. C’erano i nasi, che si intrecciavano scontravano e incrociavano in quei baci che non erano tanti, no no era uno solo che non finiva mai e che parlava. Parlava delle attese. Dei silenzi. Delle decisioni. Delle delusioni. Degli appuntamenti mancati. Delle canzoni. Delle favole. Era un bacio solo che nutriva tutto questo, una danza tra due corpi ma soprattutto due anime create per quei passi, quei ritmi, quelle sensazioni. C’erano le mani. Ancora. E c’era la terra, umida, e l’erba che sapeva di giugno. E c’era il sole. Alto nel cielo, che abbagliava mentre il mondo scorreva e loro vivevano. Come mai forse prima. Senza chiedere nulla. Solo che quel bacio non finisse mai.