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cricolli

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Libri 

Scrivere un libro è dare forma ad una storia che già esiste. Voglio dire esiste prima di te e anche senza di te, prima che ti venga l’idea di una storia o che un incontro faccia nascere il personaggio. È come se queste figure celate dietro alle lettere decidessero un giorno che è la tua penna ad essere degna di raccontare la loro storia, semplice o complessa che sia. Tu ci provi a dirgli di no, che hai altro da fare, che la tua vita è già un casino, ma loro ti danzano nella testa con sempre maggiore insistenza e pian piano ti convincono a sederti davanti allo schermo, di sera, di notte, la mattina presto, quando sei libera dal resto e dovresti dormire. Ma se dormi li sogni e allora tanto vale farli vivere sti rompiscatole. Che ci vuole coraggio e soprattutto presunzione per scrivere un romanzo. Voglio dire, pensare che a qualcuno importi quello che hai da dire è per me uno degli esempi più lampanti di egocentrismo, autostima, e anche di un pelo di supponenza. Per cui i miei personaggi ce l’hanno davvero dura, sono tipi ostinati e cocciuti, per anni non hanno avuto soddisfazione, poi sono arrivati i primi post e alla fine, in questa mia strana fase di maggiore sicurezza, mi sono arresa a dargli un volto. Con le lettere, intendo. L’unico modo in cui so forse dipingere, con le parole e le frasi, con gli aggettivi, i verbi, le congiunzioni. E, straordinariamente, scrivere è come andare al cinema. Sei lì, davanti allo schermo del pc, silenzio intorno, e batti velocemente sulla tastiera e tutto prende vita: i personaggi, le azioni, le relazioni, i luoghi. Parti da un’idea e poi tutto sembra venire da sè, e ti coinvolge che non avresti mai detto. Piangi, ridi, ti arrabbi pure. E quando devi smettere per tornare alla vita reale sei un po’ stordita, perché anche quella è ora per te realtà, e ti senti come un extraterrestre che viaggia tra due mondi diversi, lontani, di cui tu, solo tu ed il tuo io, sei il tramite. Sensazione splendida e un po’ straniante. Che ti fa vivere sulle nuvole, che ti rende maleducata perchè non saluti la gente per strada che neanche la vedi che sei altrove, che ti fa bruciare il risotto perché pensi ad altro, che ti stanca terribilmente perché una vita è già dura, figuriamoci due. Ma è sicuramente il modo più soddisfacente per sentirsi esausta la sera, un po’ come fare la vita ogni giorno. Insomma una figata. E tutto il resto è noia. 

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Settembre

Quando ero piccola, a fine estate, durante il viaggio di rientro da Sestri Levante, si facevano i buoni propositi per l’anno nuovo. Che in effetti l’anno vero, quello lavorativo, quello sportivo, quello insomma in cui si fa e si disfa inizia a settembre. E così, mentre il mio adorato mare si allontanava e le gallerie facevano di continuo zittire la musica alla radio, si iniziavano a snocciolare le buone intenzioni per l’autunno. L’idea partiva sempre da papà e con gli anni ho avuto prima il dubbio, poi la certezza, che approfittasse delle due ore di viaggio in cui non potevamo sfuggire dall’auto, per farmi un po’ di ramanzina preventiva. Dalla scuola agli impegni domestici, dal linguaggio più pulito alla promessa di non rompermi più la pellicina delle dita. Così, per anni. E alla fine è diventata un’abitudine che ho trasmesso pure ai miei figli, che mi guardano con sufficienza e commentano con un “mamma scialla” che se lo avessi detto io al colli mi avrebbe probabilmente lasciato al primo autogrill. Quindi eccoci a settembre e ai buoni propositi. La pellicina non me la rompo più ma solo perché spendo soldi per lo smalto e quindi cerco di far fruttare il mio investimento. Le parolacce cerco di gestirle ma mi sono convinta anche che un certo slang renda meglio l’idea di alcuni stati d’animo, con buona pace dei miei genitori che ancora mi riprendono quando mi esprimo in toni lontani da quelli dell’Accademia della Crusca. Nel lavoro, in famiglia e negli affetti credo di essere da tempo sulla buona strada, e non ci sono state lamentele, per cui o va bene o mi hanno accettata per come sono, e non è poco. Per il resto, in questo nuovo autunno pieno di progetti, prometto a me stessa che avrò sempre di più rispetto di ciò che sono e di ciò che voglio, che ad ogni caduta mi rialzerò più forte, che non smetterò mai di pensare in grande e di mettercela tutta per realizzare ciò che penso. E se andrà male, l’anno prossimo ci riproverò. Che le buone abitudini non vanno mai abbandonate…

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La via del mare

Ci sono alcuni che per festeggiare un anniversario scelgono una crociera romantica, altri un rilassante week end in una beauty farm, e altri ancora si regalano una cena speciale. Noi no. Ci sembrava troppo banale. Molto meglio avventurarsi in un trekking di tre giorni lungo la via del mare, da Capanne di Cosola a San Fruttuoso. Ne parlavamo da più di vent’anni, ogni volta che facevamo una passeggiata in costa, qui, sui monti della Val Borbera, che dal ’94 fanno da sfondo a frammenti delle nostre estati insieme. E finalmente l’abbiamo fatta. Sono stati tre giorni impegnativi, camminando in costa e nei boschi, sul sentiero e su tratti asfaltati, su e giù attraverso le valli, da Cavalmurone al Carmo, dall’Antola a Torriglia, dal Monte Lavagnola al Passo della Scoffera, da Uscio e Ruta e poi giù giù fino al mare azzurro di San Fruttuoso. 70 km, 8 ore di cammino al giorno, 2 paia di scarponi goduti e buttati nel tragitto, 2 ginocchia, le mie, che mi ricorderanno la discesa a Torriglia per un bel po’. Ma soprattutto la gioia di un passo dopo l’altro, insieme, chiacchierando, ridendo, lunghi tratti in silenzio, perché il cammino fa pensare e ti rinforza dentro e fuori. Vedere il mare che si avvicina, pian piano, capire che ce la stai facendo, anche se hai male perfino ai lobi delle orecchie, sentire i profumi che cambiano dall’Appennino all’intensa macchia mediterranea, e alla fine guardarsi sul traghetto che ci portava a Santa Margherita e sorridere dell’ennesimo tassello messo al nostro stare insieme. La nostra via del mare, zaino in spalla, mano nella mano, un cuore solo. ❤️

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Dignitas

Ci innamoriamo senza un motivo preciso. Succede. Così, per caso. Per il tono della voce o per uno sguardo diverso dal solito. Per una frase detta senza pensarci troppo o per un banale scambio di convenevoli. Non lo decidiamo noi. In un mondo che controlla e gestisce tutto i sentimenti sfuggono. Anzi sono dispettosamente ingovernabili, più li ricacci da dove sono venuti più loro si accaniscono. E ci fregano sul più bello, noi, quelli tosti e incorruttibili. Ci ritroviamo a disegnare cuori sui fogli e a cantare a squarciagola Ti amo di Tozzi che neanche a quindici anni. Cosa strana questa dell’amore vero? Appiana le rughe meglio del botox, mette buonumore senza dover usare pastiglie e pastigliette, ci rende più belli senza spendere una lira. Ovviamente con il rischio che al suo venir meno saremo come dei vileda pavimenti appena strizzati. Ma in un mondo che vive per l’oggi perché curarsi del poi? Se mi tonifica anche il sedere senza dover andare in palestra prometto devozione totale a questa cosa che si chiama amore. E se non ci riesce causa forza di gravità bè vorrà dire che mi fiderò lo stesso. Ho letto da qualche parte che vale la pena, purché non si perda mai la dignità. Che amore e dignità devono andare a braccetto, se no è un gioco in cui si perde se stessi. E trovarsi già non è facile, ritrovarsi un’impresa quasi impossibile. 

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Ora sono io

Quando avevo 16 anni mi sono ammalata di anoressia. Anche se dire mi sono ammalata non è corretto. L’anoressia non é il morbillo o la varicella, non è che un giorno stai bene e il giorno dopo hai la febbre alta. No. È qualche cosa che si fa largo pian piano dentro la tua mente, che ha radici lontane e che quando realizzi il problema sei già fregata. E come l’herpes, una volta che l’hai contratto, ti resta dentro per tutta la vita e se ti indebolisci un attimo torna a bussare alla porta. Avevo 16 anni ed ero una ragazzina bravissima a scuola, sportiva, carina, con tanti amici. E quella del 1990 era stata l’estate più bella di sempre. Il primo vero amore e successo coi ragazzi, che a quell’età è ciò cui tutto un po’ ruota intorno. E poi è arrivato l’autunno e qualche cosa si è inceppato. Ed è stato l’inverno più brutto della mia vita, inverno fuori inverno dentro. I miei genitori che le provavano tutte ma il mio cervello si era bacato e il mio corpicino scompariva lentamente. Sempre più giù. Sola. Che a 16/17 anni se stai male gli amici magari ti cercano una volta, poi sei menosa e bum scomparsi. Tutti tranne una. Che infatti sarà per sempre quella che stimo di più. E che me ne ha dato dimostrazione anche in due chiacchiere davanti a un caffè qualche settimana fa. Una battaglia in cui c’era solo sconfitta, la mia, su tutti i fronti. Finché tocchi il fondo. O la Cristina piena di vita, energia, forza che c’era fino all’estate prima semplicemente dice basta. E con l’aiuto della famiglia, dei medici, di me stessa, sì di me stessa, pian piano inizi la risalita. Che è come scalare l’Annapurna senza ossigeno. Cadi ti rialzi cadi. Sopravvivi agli sguardi della gente, che in un piccolo paese sono sempre troppo insistenti, a chi mette in dubbio il tuo impegno, lotti con te stessa, e ci provi. Ma questo ciclone ti ha cambiato. Più chiusa, meno solare, e fragile, fragilissima. Con sensi di colpa verso i tuoi e la paura di non farcela. Incontri lui, il grande unico totale amore della tua vita. Non sai che sarà lui, ma ti appoggi totalmente a questo che diventa amico fratello amore sostegno. E lui sempre accanto a te, negli anni universitari durissimi, perché a volte le forze non bastano e il corpo migliora poi peggiora poi migliora. Su e giù, meglio ma non bene. E poi arriva la laurea. 23 anni. Perfetta come volevi tu. E non sai come inizi ad essere più sicura, ci metti più convinzione, mangi e ti alleni, che sti muscoli piccoli che siano me li sono fatti centimetro per centimetro, e lei, la stronza, se ne va. Davvero. E rifiorisci. Ma ancora devi dimostrare qualche cosa. Che puoi avere figli anche tu, anche se non hai avuto il ciclo per un po’ e da qualche parte hai letto che potrebbe essere più difficile. E lui che ti ama alla follia asseconda il tuo desiderio, subito subito. E mica può essere facile. I fantasmi tornano con l’aborto. Sto corpo di merda non ce la fa, ho rovinato tutto. Ma è un attimo, ora sei più forte. E arrivano loro, uno e subito dopo l’altro. Loro che, nascendo, mi hanno fatto nascere di nuovo. E gli anni passano e pian piano senti che non devi più dimostrare nulla, che ce l’hai fatta, che hai tutto quello che sognavi e che avevi paura di aver rovinato. E diventi sempre più sicura. Di te stessa. Del tuo corpo. Delle tue idee. Di ciò che sei. E ti piaci. Sì a quarant’anni impari a piacerti. E lui sempre con te, che è cresciuto con te e sa cosa vuol dire tutto questo. In fondo la quarantenne che vedi ora è uguale alla sedicenne prima dell’inferno, che ballava sui tavoli, che rideva sempre, che faceva il pagliaccio davanti all’obiettivo fotografico. Eccomi finalmente sono io. E a chi si chiede perché sia cambiata così, non sono cambiata. Ho solo lasciato uscire la vita e l’energia che mi scorre da sempre nelle vene e ho sepolto tutti i fantasmi. E sorrido, oh se sorrido, sempre. Che a ripensarci mi sento invincibile. E questo è fantastico. 

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Casinó

La vita è davvero come un grande casinó. Con l’accento sulla o, anche se, avete ragione, è pure un grande casino. Un casinó pieno di roulettes, tavoli da black jack, macchinette mangia soldi che ogni tanto si degnano pure di restituire. E ogni atto è l’esito di una scelta personale, che raramente permette correzioni. L’unica cosa che non ci é dato di scegliere è il punto di partenza, la nascita: il luogo, la famiglia, il reddito. E qui dipende dalla fortuna di ognuno, se nasci figlio di Berlusconi probabilmente sarà più facile decidere e stare a galla. Probabilmente, perché se sei un pirla lo dimostrerai comunque. La società è piena di Lapo a cui sono stati dati sacchetti e sacchetti di monete da spendere nel casinó, ma ci si è scordati del sacchetto che conteneva il cervello e allora tanto vale. Una volta nati, iniziamo a scegliere. Ogni giorno. E in ogni scelta si perde qualche cosa e forse se ne ottiene un’altra. Banalità vero? Sì molto banale. Ma in alcuni momenti, dopo anni che sei nel casinó della vita, e sai di avere puntato male qualche volta di troppo, vale la pena fermarsi. E lasciarsi andare alle banalità. Lì, fermi, in mezzo al frastuono, ricordarsi sempre che se qualche cosa non ci piace nella nostra vita è solo causa nostra, delle nostre scelte, del nostro impegno, a cui si somma la dose di culo che ognuno ha ricevuto tra i talenti. Culo non fortuna, termine più volgare ma rafforzativo necessario. Faber est suae quisque fortunae dicevano i romani, ognuno è artefice della propria sorte. E i romani la sapevano lunga. Se solo leggessimo di più i classici certe scelte magari sarebbero più facili, è tutto già stato scritto e noi qui ad affannarci per inventare qualche cosa di nuovo. Ogni giorno una scelta. Ogni giorno una fiche. E non si torna indietro. Rien ne va plus, les jeux sont faits. Che non esiste la penna cancellabile. Tutto si supera certo, ma tutto resta. E mattoncino dopo mattoncino costruisce la nostra vita. E se non vi piace, bè riempitevi le tasche di fiches e provate a giocare di nuovo, con più convinzione, con meno paura. E chi lo sa che magari farete la vincita del secolo…..

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Parole inutili

Migliaia di frasi per spiegare l’amore. Libri, poesie, racconti e perfino i cartigli dei Baci Perugina. Una letteratura intera praticamente inutile. Perché quando lo vivi questo amore, pieno, totale, illogico, irrazionale, le parole vengono meno. Che un bacio come lo spieghi, come lo racconti? Sì, per carità, puoi farlo, ma diventa così un puro resoconto anatomico di due corpi che si incontrano. E fa pure un po’ schifo dai parlare di lingue che si intrecciano. E uno sguardo? Come rendi l’intensità di quegli occhi che ti leggono dentro anche mentre bevi un bicchier d’acqua e parli dello sciopero dei treni? Come puoi descrivere il colore di occhi che neanche vedi perché in quel momento sei già oltre, in un mare senza confini? E un abbraccio? Un abbraccio lungo, stretto stretto ma dolcissimo, che ti racconta che sei sua, che lo sei sempre stata, che ti vuole qui adesso subito, che ti trasmette brividi, emozioni, timori, desideri. Come puoi spiegare due corpi che si intrecciano senza scadere nel volgare di un atto che può essere letto in mille modi, e mille ancora, tutti diversi unici speciali, ogni volta, e ogni volta ancora? Non lo afferri l’amore con le parole. Scivola via. Si nasconde tra le lettere, inganna la sintassi. Ma se decidi di parlare il suo linguaggio, quello fatto di gesti ed emozioni, allora sì, risuonerà dentro te. E non lo perderai mai. 

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Certe notti

Certe mattine ti svegli stanca anche se hai dormito otto ore. Apri gli occhi ed è come se neanche li avessi chiusi. Sono le notti in cui i pensieri si fanno sogni e il cervello continua il suo brusio incessante, tirando fuori dai cassetti tutto ciò che durante il giorno avevi accantonato. Le notti in cui viaggi da New York a Calcutta con il fardello di tutte le emozioni represse, con la valigia dei tuoi dubbi, pesante e ingombrante. E la mattina, sdraiata nel tuo letto, stanchissima e di cattivo umore, non ricordi più nulla di questi giri della mente, ma ne senti addosso la fatica. Poi ti alzi, doccia, colazione e pian piano la notte ti lascia. Esci di casa, iniziano le corse, gli appuntamenti, la vita vera e le paturnie sfumano. Ma nei giorni così devi stare in guardia. Che basta un nulla. E il malessere torna. Che in questi giorni no, sorridere, non sai perché, è un pochino più difficile.

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Nozze da favola

Sestri è un luogo magico. La baia del silenzio di più. Il suo profilo regolare, le casette che si specchiano nel mare tremolante, i flutti che si infrangono dolci sulla spiaggia, e il profumo del mare. La cornice ideale per un matrimonio da favola. In stile Beautiful. E, infatti, da un paio di anni il piccolo tratto di spiaggia che rivendico un po’ come mia perché è qui che ho trascorso la maggior parte delle mie estati, proprio qui sulla sabbia dove mio figlio da piccolo perdeva il biscotto Plasmon, per poi trovarlo due giorni dopo e mangiarlo come se nulla fosse, proprio qui dove ho dato i primi baci veri, nascosti tra le barche, proprio qui ecco adesso ci si sposa. Esattamente come Brooke le sette volte che ha sposato Ridge, le due Eric, e poi ho perso il conto. Bè come lei. Con arco di fiori freschi e la brezza lieve, che a volte sa un po’ di fogna, ma con i fiumi di profumo degli invitati non si sente, con la musica di sottofondo e i gabbiani che finora hanno graziato tutti. Solo che in California o in Messico che fosse, le spiagge erano deserte. Solo gli invitati, tutti abbronzati e bellissimi. La sposa a piedi nudi e lo sposo in completo di lino, i paggetti tutti alti uguali, e il prete figo pure lui. Che era quello di uccelli di rovo mi sa. Qui invece il matrimonio ha il pubblico delle grandi occasioni. Una folla direi. Di bagnanti in costume con il cellulare in mano per fotografare, i bambini che nuotano e si sparano con la pistola mentre loro pronunciano sì, la sciura che passa davanti al fotografo e il coccaro che urla coccobello. Però ci sta. Ci piace essere guardati. Siamo la generazione di Instagram e Facebook no? Ecco, e allora esageriamo. Primo, bandiamo la sobrietà. Perché se il tuo mito è Brooke Logan non puoi essere sobria. Ci vogliono almeno sei damigelle vestite di rosso, fucsia, giallo canarino, insomma un colore colore, che non puoi non notarlo. Poi la bambina che butta i petali al passaggio, anche se, per evitare che, dati i quaranta gradi, il petalo s’ammosci, usiamo quelli di carta. E la sposa ovviamente è arrivata in barca, con la gru per metterla dentro e poi tirarla fuori, che se vuoi arrivare dal mare devi fare come Bo Derek in James Bond, se no sembri sempre uscita da un video di Paperissima e rischi un bagno stellare, che poi davvero sposa bagnata sposa fortunata. Ed eccoci al dress code. Abito lungo, con almeno qualche brillantino, scollato in modo da non lasciare nulla all’immaginazione, e sandali taccatissimi. Spesso indecenti. E scusate ma sul tacco sono pignola, e lo spillo argentato, con i laccetti da cui trasuda il piedino di porco e la suola che riporta ancora l’adesivo con prezzo e vera pelle anche no. E spesso ho avuto l’impressione che avessero fatto una spedizione collettiva in un supermercato dei cinesi, perché tacchi così io li ho visto solo lì, vernice, lucidi, camoscio, oro, argento, rosso. Tutto purché visibile ad almeno cento metri, che ho comperato il tacco apposta mó lo devi notà. Acconciature che neanche Maria Antonietta nel massimo del suo splendore e il trionfo di coroncine, fiori, mollette, ecco le mollette, un po’ come le ginnaste dell’est alle olimpiadi ma loro sono ragazzine e in mondovisione, queste vecchie panterone del ribaltabile, che tentano gli ultimi affondi. Passa la cerimonia, passa lo shock dei look, cena sempre sotto casa. Ristorante bellissimo sulla spiaggia. E non siamo neanche al primo, che una delle panterone, che si è fatta già dieci prosecchi pensando di essere ancora all’addio al nubilato, si tuffa in acqua. Che voglio dire aspetta almeno la fine della cena, con tutto il tempo che ci hai messo a farti trucco, parrucco, tre giorni tra estetista parrucchiere e chirurgo, e ti butti in acqua tra i bimbi che giocano a pallavolo così? Per poi ovviamente sedersi a mangiare il primo gocciolante e con un asciugamano di fortuna. E le altre? Vuoi mica essere da meno? Via le scarpe, via gli orpelli, qualche uomo toglie la camicia che si è fatto ripassare apposta il tatuaggio si sa mai che nel trionfo dell’amore romantico anche lui riesca a rimorchiare. Ecco, potrei continuare. Ma davvero non riesco. Che pure la baia a un certo punto è sembrata Ostia e le nozze quelle di Jessica e Ivano in Viaggio di Nozze. Con buona pace di Andersen e del suo amore per Sestri. Che di sirenette non ne ho viste, al massimo qualche principessa sul pisello, e più che una fiaba mi è sembrato un inno al famolo strano.

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20 centesimi di secondo 

Lo guardi. Ti guarda. E’ un attimo e la prefazione di una storia è già scritta. I colpi di fulmine esistono. Eccome. Anche se il più delle volte poi ti lasciano lì stecchita a leccarti le ferite. Ma se fossimo saggi e valutassimo il prima e il poi ci perderemmo tutto il durante. E, non so voi, ma io non presto mai molto attenzione alla sigla di inizio e ai titoli di coda. Mi interessa il succo della storia, anzi la polpa, quella che ti fa volare così in alto che tutto ha un senso, che ti coinvolge e ti stravolge, che scandisce il ritmo dei tuoi giorni e che rende l’alba emozionante e il tramonto inebriante. Una recente ricerca afferma che bastino venti centesimi di secondo dopo il contatto visivo con l’altro perchè nel cervello scattino dei processi chimici che rilasciano nel corpo delle sostanze – ossitocina, adrenalina e dopamina – in grado di provocare una sensazione di benessere ed eccitazione simile all’effetto di droghe. Ecco, premesso che di chimica, matematica & Co. non ci ho mai capito nulla e non mi sono neanche mai sforzata di farlo, credo che però basti davvero un attimo. Un attimo per sentire dentro il cuore che manca. L’effetto montagne russe. Il brivido che non ti spieghi. Il freddo, il caldo, il niente fiato, il checosaèstarobachenonmispiego. Ecco non spiegartela. Che ci pensano gli scienziati e i filosofi per quello. Tu, vivila. Che venti centesimi di secondo sono davvero pochi ma possono fare la rivoluzione.