Santa Lucia. Protettrice della vista. Ecco, cara Lucia, regalaci degli occhi che vedano la realtà e sappiamo riconoscere il bene dal male. Che vedano e non guardino solo, che imparino a soffermarsi sulle cose e le persone, e non siano velati dalla presunzione di sapere già tutto. Che ci facciano capire al volo se il belloccio che ce la batte è un classico esempio di uomo spazzatura o se invece vale la pena. Che ci mostrino sempre la bellezza dei nostri figli, dei nostri genitori e ci facciano vedere le cose davvero importanti. Gli occhi ingannano spesso, perché abbiamo perso l’abitudine a soffermarci e a guardare i particolari. Avete presente i quadri naïf? O quelli dei fiamminghi? Ecco la vera bellezza è nell’indagare tutti gli oggetti e i personaggi e la natura presente, non lo sguardo di insieme. Ecco cara Lucia dacci occhi capaci di vedere la realtà come davanti ad un quadro di Bruegel. E niente più
Natale
Natale. Tra un paio di settimane. Albero fatto, regali per questo e per quello comperati, cene aperitivi caffè e ammazzacaffè organizzati. La letterina a Babbo Natale. Ecco quella non l’ho scritta quest’anno, neanche l’ho pensata a dire il vero. Che se per te è Natale tutto l’anno chiedere ancora sarebbe un oltraggio al buon gusto. Però davanti al mio alberello qualche desiderio lo butto lì, tanto per non perdere l’abitudine. Vorrei che sulla slitta ci fosse il mio sogno di pubblicare un libro e di vederlo in tutte le librerie. E vorrei che qualcuno ogni tanto mi chiedesse come sto e se ho bisogno di fare due chiacchiere, perché la solitudine uccide e inacidisce. E vorrei che i miei figli fossero sempre sorridenti e tranquilli come in questi giorni, belli da morire e divertenti come non mai. E vorrei che lui capisse che lo amo come non mai e che senza di lui valgo meno di una lucina bruciata sull’albero. E vorrei che la donna che sono diventata fosse così forte da cancellare i sensi di colpa per il passato, perché non si può sempre viaggiare con un bagaglio pesante da trascinare. E vorrei che ci fosse più onestà, meno ipocrisia, meno invidia, più leggerezza, più autoironia. E poi se proprio devo dirlo vorrei la Kelly di Hermès. Tinta cuoio. Così, che se no Babbo Natale pensa che sia la sorella saggia della Colli e non voglio confonderlo in questi giorni già impegnativi per lui 😉
Pure love
Perché io ti amo cazzo. Eh lo so che ti danno fastidio le parolacce ma lasciami parlare. Siediti lì e ascoltami. Non è mica facile amarti sai? Soprattutto dopo una vita insieme. Mi viene voglia di mandare tutto all’aria almeno due volte alla settimana. Ma sì dai. Come fai a chiedermi ancora dove è il sale? È nello stesso posto da quando abitiamo qui, 15 anni. E poi riesci sempre a fare casini con i miei impegni. Perché non mi ascolti. Fai sì con la testa e pensi ai fatti tuoi. Che voglia di andarmene e stare in una beata solitudine. Lo sai vero? Ah ecco, lo sai. Ma sai anche che non vado da nessuna parte poi. Perché ti amo. Amo il tuo svegliarti la mattina e camminare ad occhi chiusi trascinando le ciabatte. Amo i tuoi baci sulla mia fronte. Amo il tuo modo equilibrato di affrontare le cose. Amo come mi ami. Amo le tue mani, lunghe e affusolate, e le tue labbra. Amo sentirti parlare, di tutto, e la capacità di saperti muovere in ogni contesto. Amo la tua follia malcelata, il tuo cuore rock, la tua passione per i viaggi. Amo ogni centimetro di te da quando eravamo ragazzini. Che dichiarazione eh? Ecco adesso puoi alzarti e andarmi a prendere il regalo di Natale. Compra pure secondo coscienza. E ricordati che l’amore va nutrito ogni giorno. Meglio se da Tiffany, Hermès o Gucci 😂❤️❤️❤️❤️
Attesa
Faceva caldo, troppo caldo. Nonostante fossero ormai quasi le otto di sera, l’aria era ancora afosa, senza un filo di vento, quasi irrespirabile. Seduta ad un tavolo di un ristorante in riva al mare, Laura si chiedeva se quella maledetta estate sarebbe prima o poi finita. Le temperature erano sempre state oltre il tollerabile, soprattutto per lei, tormentata dalle caldane della menopausa, insofferente all’aria condizionata, costretta al lavoro in quei vestitini molto chic che fino a qualche anno prima aveva adorato e che ora avrebbe volentieri sostituito con dei freschi prendisole. Il telefono, appoggiato a fianco al tovagliolo, si illuminò. Un messaggio dall’ufficio, l’ennesimo, a ricordarle di quanto fosse assurdo trovarsi lì in un giorno infrasettimanale, lontano dall’azienda che aveva fondato quindici anni prima e che era la sua unica ragione di vita. Nicolò, il padrone del ristorante, le si avvicinò posando sulla tovaglia di fiandra un calice di vino bianco. Conosceva i suoi gusti, erano cresciuti insieme su quella spiaggia, in quella baia fatta di casette colorate che al tramonto allungavano le loro ombre sull’acqua, rincorrendosi tra i gozzi dei pescatori e mangiando focaccia in riva al mare. Quel luogo era casa più di ogni altro posto, il suo rifugio nei momenti difficili. Guardò l’orologio, le otto e dieci. Come al solito era in ritardo. Suo fratello non aveva mai rispettato le regole né tollerato le imposizioni, era distratto e noncurante, millantava sbadataggine e invece era solo un menefreghista. Non lo vedeva da diciotto anni, da quel lunedì in cui aveva chiuso l’ennesima lite telefonica con la promessa che non lo avrebbe mai più rivisto, che per lei era morto. Ripensandoci si innervosiva di nuovo, non sopportava le persone rigide e irragionevoli e lui lo era stato. Aveva dato retta a quella arrivista che si era portato a casa un paio di anni prima incinta e buttato all’aria tutto il patrimonio che i genitori gli avevano lasciato, sperperando nel gioco e in una quantità di futili passatempi che lo avrebbero ridotto al lastrico. Laura glielo aveva ripetuto più volte, ma lui era parso sempre sordo ai suoi richiami e l’aveva pure truffata. Sì, era stata truffata da suo fratello. A quel ricordo prese dalla borsa il pacchetto delle sigarette e se ne accese nervosamente una. Il telefono si illuminò di nuovo. Le otto e un quarto e neanche si degnava di avvisare. L’aveva chiamata una settimana prima. Lei aveva risposto distratta senza guardare chi fosse e la sua voce l’aveva sorpresa. Si chiedeva ora perché non avesse attaccato subito, era stata tentata, ma qualche cosa l’aveva trattenuta. Paolo le aveva detto che aveva bisogno di parlarle, al più presto, e le aveva dato appuntamento lì, nel loro nido. Di sicuro aveva bisogno di denaro, si era detta, e aveva infilato nell’agenda il libretto degli assegni: l’avrebbe liquidato in fretta e se lo sarebbe tolto di torno per altri venti anni o, meglio, per sempre. Sorseggiando il vino si voltò verso la discesa che portava alla spiaggia e vide arrivare un uomo. Camminava lento e un po’ a fatica. I capelli radi, la schiena curva, una maglietta troppo larga e un paio di pantaloni tenuti su da una cintura tirata al massimo. Alzò lo sguardo e Laura si sentì mancare. Quegli occhi verdi si riflettevano nei suoi, ugualmente verdi, ugualmente grandi. Paolo avanzava a fatica e lei si sentì sgretolare dentro: in un attimo non ci furono più liti, ritardo, nervoso. Tutto il muro che si era con fatica edificata nel cuore si era frantumato in un attimo. Suo fratello non era sul lastrico, suo fratello era malato. Quando fu vicino al tavolo, sempre fissandola, si sedette accanto a lei e le prese la mano. Era fredda e scarna, lui che aveva sempre avuto una presa energica, e chiedeva calore. Laura la strinse, più forte che poteva, e rimasero lì, in silenzio, ad osservare il loro mare che si colorava del rosso del tramonto.
Avanti tutta
Seduta davanti al suo cappuccino senza la forza di partire. Era troppo stanca, troppo arrabbiata, troppo delusa, troppo. E quando accadeva il mondo intero girava al contrario e lei si sentiva lo schifo addosso, come aveva scritto Baricco in un suo romanzo. La solitudine era insopportabile in quei giorni. Lavorava nel silenzio. Mangiava nel silenzio. Si muoveva per quella casa senza che ci fosse un rumore a ricordarle che era viva. Era stanca. Sì, continuava a ripeterlo. Stanca. Quella vita sempre in salita. I disturbi alimentari da ragazzina e l’adolescenza saltata, puff in un attimo. L’aborto e il dolore di un corpo che ti tradisce, e chi se ne frega se le statistiche dicono che capita ad una donna su due. É successo a te e la ferita è ancora aperta. Le gioie per l’arrivo dei figli, sempre però con il cuore in gola, che pure le minacce di parto prematuro le erano capitate, mesi nel letto lei, che non era in grado di stare sul divano cinque minuti. Era stanca. Troppo stanca. Il lavoro sognato e guadagnato con i denti portato via per non si sa quale ragioni, di sicuro indipendenti dalla sua volontà. E ogni volta ricominciare. Sempre con il sorriso. Perché le era stato insegnato che si va sempre avanti, buon viso a cattivo gioco, mai una lamentela, mai un non ce la faccio. Sempre quel dannato sorriso e quella disponibilità che la rendeva odiosa agli altri, invidiata forse, di sicuro sola, perché se sembri sempre felice agli altri dai fastidio. Legge di Murphy scritta nella roccia. Era stanca. Pure di fregature. Come quell’amica di cui si era fidata e con cui aveva costruito qualche cosa e che le aveva piantato un coltello nella schiena alla prima occasione. E lei perdonava sempre. Ma quella no. Non la perdonava. Al pensiero strinse forte la tazza. Le dita divennero bianche dallo sforzo e la bocca si contrasse in una smorfia. Sta stronza. E poi al culmine della rabbia la sua mente venne invasa da lui. Dal suo sorriso, i suoi occhi buoni, i suoi baci, il suo esserci sempre e con discrezione, il suo raccoglierla ad ogni caduta, il suo modo gentile di rimproverarla, il suo amore. Lo dava troppo per scontato ma lui era il regalo che la vita le aveva fatto tanti anni prima. Lui e i suoi figli. E allora che vadano a quel paese tutti e tutto. Avrebbe voluto metterli in una valigia e partire, andare via. Via dai pettegolezzi, da questo buco del mondo in cui non c’era spazio per la sua creatività, dalle false promesse, via via via. Era stanca. Sì. Ma con loro sarebbe ripartita anche oggi. Mise la tazza nel lavello, la riempi di acqua e si preparó ad un nuovo giorno. Si sentiva molto Rossella O’Hara e invece era solo una donna come tante. Ma le donne come tante sono quelle che non si arrendono mai. Infiló il cappotto e uscì. Il cielo era plumbeo e l’aria gelida. Pronti via e basta pensieri negativi. Era stanca. Ma non si sarebbe fermata. Mai. E avrebbe continuato a sorridere. Sempre
Li ho visti lì, seduti su un muretto. Mano nella mano ridevano e lasciavano che fossero gli occhi a parlare. Li ho spiati, sì, perché non c’é film d’amore più bello di quello che la realtà offre ogni giorno. Li ho visti lì, camminavano mano nella mano e ogni tanto si abbracciavano, le cartelle in spalla, un auricolare a testa ad ascoltare la stessa musica. Li ho visti lì, in coda al supermercato, un po’ tremolanti, la lista della spesa in mano, i capelli bianchi, si aiutavano a ritirare tutto nelle borse, una vita insieme, un miraggio nel nostro millennio. Li ho visti lì, su una panchina, il viso arrossato, le lacrime agli occhi e l’affanno di chi ha appena litigato, sguardi fissi e la consapevolezza che qualcosa stava finendo. L’amore. Lo evitiamo ma non ci dà scampo. Lo cerchiamo una vita e poi ci appare nel posto e nel momento più improbabile. In coda dal macellaio, pagando il ticket in ospedale, in metropolitana. Li ho visti lì. E loro avranno visto me. A parlare fitto fitto al tavolino di un bar mentre la scenografia delle ore mutava il cielo sopra di noi. Tutti attori nelle mani di questo potente regista. L’amore ❤️
Lunedì
Freddo fuori. Come tanti spilli che ti sfiorano la pelle e ti fanno rabbrividire. Vento pure. Quello teso, che alza mille foglie intorno e ti arruffa i capelli. Eppure io sentivo caldo ieri sera. Tra quei vicoli silenziosi e le case dai piccoli balconi in cui erano accatastati vasi di varie dimensioni. Mi sono persa a passeggiarvi, prendendo la strada più lunga per raggiungere la metropolitana, rischiando (o sperando?) di perdere il treno che mi avrebbe portato via da lì. Poca gente. Il lunedì tutti se ne stanno in casa, soprattutto se c’è il calcio in tv. I miei tacchi risuonavano sul marciapiede toc toc, quasi davano fastidio, che strano sentire il rumore dei tacchi in una città caotica come Milano…sospesa in quell’angolino lontano da tutto mi sono messa a ridere. Senza motivo, Che non ci vuole un buon motivo per ridere, e neanche devi spiegarlo. Magari sembrerai un po’ folle agli occhi degli altri, ma in provincia, qui neanche ti vedono se ridi, piangi, o parli da sola. Ho adorato quel luogo, quel momento, quel freddo di novembre. Ho adorato i pensieri che ne sono nati e la bellezza di poter sognare. Poi ho preso il treno e sono tornata. Ma non sono più la stessa. Ogni sensazione nuova ci rende diversi. Anche solo in una cellula. Ed è un po’ come rinascere….
Noi donne..
Passiamo tutta la vita a cercare di affermare il nostro essere donne e la nostra indipendenza. Sgomitiamo per raggiungere certi risultati in contesti a volte difficili e investiamo tutte le energie nel dimostrare che siamo donne forti, indipendenti, in grado di spaccare il mondo. E poi arrivano un paio di occhi profondi e spiazzano tutto. Arriva un lui che ti fa il complimento giusto al posto giusto nel momento giusto e buttiamo tutto all’aria. Siamo pronte a seguirlo in capo al mondo, ad assecondare i suoi orari, le sue partite a calcetto, i ritardi, gli impegni di lavoro. Insomma ci adattiamo alla sua agenda e cancelliamo la nostra. Rivediamo tutte le priorità. Perchè siamo donne e quando amiamo non c’è storia. Diventiamo dipendenti da quegli occhi, da quell’abbraccio, da quei baci, da quelle mani forti. E a quel paese tutti i proclami delle femministe. Erano tutte frigide, pensiamo. Che a casa ad aspettarlo tutta la vita, ma con lui. Poi, un giorno, lui si stanca. Si disinnamora. Trova un’altra priorità. Un nuovo interesse. O semplicemente la fiamma si spegne. E tu ti ritrovi sola. Svuotata. Come un palloncino che è volato troppo in alto e poi ricade a terra senza più energia. E visto che sei una donna piangi tutte le lacrime del mondo, maledici, imprechi, stai una settimana chiusa in casa che Bridget Jones è Miss Universo, ma poi riparti. Più agguerrita che mai. Cerchi di recuperare il tempo perso, riallacci i contatti, riprendi in mano la tua vita. Anche se non è facile. E giuri che non lo farai mai più, che non ti farai più fregare. E qui sbagli. Perchè succederà di nuovo. Perchè il Principe Azzurro di Cenerentola ci ha fregate tutte e in cuor nostro lo aspettiamo, meglio se assomiglia a Brad Pitt in Vento di passioni. Perchè nessuna indipendenza sarà mai appagante come quella che ci regala un lui speciale seduto la sera sul divano accanto a noi, la testa sulla sua spalla, la coperta sulle gambe, e la voglia di fermare il tempo.
Tempo
Più cresco e più mi rendo conto di quanto il tempo sia prezioso. Sì, lo so, è una considerazione banale. Ma come tutte le cose banali tendiamo a dimenticarla. Perdiamo un sacco di tempo dietro a questioni di minima importanza, ci arrovelliamo in conflitti interiori che spesso non portano a nulla, diamo retta a questo e a quello e ci scordiamo di noi. Di coccolarci e di cercare di perseguire i nostri sogni. Di impiegare ogni singolo istante per diventare le persone che vogliamo essere e di trovare ogni giorno un momento solo per noi. Che non è egoismo questo. O forse sì, ma se ci scordiamo del tempo per la nostra di vita, come potremo dire di averla davvero vissuta? Inseguite i vostri sogni e lavorate per realizzarli. Alzatevi presto al mattino e non lasciate che le ore passino, riempitele della vostra vita. Non dite non ce la farò mai, piuttosto prima o poi ce la farò. Siate fieri di ogni piccolo successo e sappiate che ogni volta che cadete vi rialzerete più forti. Il tempo non deve “passare”, il tempo deve “vivere”. Viaggiate, amate, ridete, lavorate, siate. Voi siete gli artefici del vostro essere. Non perdetevi in un amore che non da, non annullatevi in un’altra persona, non vivete di riflesso, non sacrificate più del dovuto. Mettetevi al centro e non perdete tempo. Nessuno ve lo ridarà mai indietro.
Papà
Ho passato una vita ad arrabbiarmi perchè non riuscivamo a comunicare. Così uguali ma sintonizzati sempre su una banda diversa. Io a cercare una manifesta approvazione per le mie inclinazioni, i miei studi così lontani dal tuo modo di vedere e disegnare il mondo, il mio essere insicura e alla ricerca di una perfezione impossibile. Tu ad amarmi come eri capace, a darmi tutto e di più, tranne quegli abbracci che non avevi ricevuto e di cui non sapevi per questo l’importanza. Hai lasciato che studiassi quello che mi piaceva, che facessi le mie scelte, nel bene o nel male, senza approvare o disapprovare più di tanto. E io ad arrabbiarmi perchè interpretavo questo come disinteresse, o scarsa stima. Non vedevo, ma ora lo vedo bene, che era l’amore di chi ti lascia libero facendoti capire che c’è, sempre, con la serietà di un ruolo che hai sentito importante fin dal mio primo vagito. Poi arriva il giorno in cui anche io divento grande. E vedo tutto con gli occhi giusti. Non più arrabbiati, non più insicuri. Semplicemente vedo e capisco. Capisco l’amore immenso. Capisco il dolore e la rabbia celate dietro la tua ruga sulla fronte (come la mia) per certi passaggi difficili del mio vivere. Capisco i tuoi silenzi e i tuoi prediconi. Capisco te e il tuo modo di essere. Capisco e non posso che amarti mille volte di più, anche per tutte le volte in cui non l’ho fatto in passato. Lo scrivo qui e non te lo dirò mai, che io non sono brava a esprimere i sentimenti, un po’ come te. Ma lo urlo a tutti, come hai sempre fatto tu, elogiarmi con gli altri, ma non dirlo mai a me. Uso il mezzo che mi appartiene di più e so che tu mi leggerai, come hai sempre fatto, e poi mi dirai “ti dico solo due cose in merito a quanto hai scritto. Una riflessione poi fai come credi…” e tu non sai quanto queste due cose si stamperanno dentro di me indelebili, a scrivere il libro del mio amore per te. il mio papà.