Non sono una che porta rancore. Anzi, che non so neanche cosa sia. Mi arrabbio, e anche tanto, ma tendo a trovare una riconciliazione e a passare oltre. E se ci tengo a una persona perdono, giustifico, minimizzo. Una due tre cinque dieci volte. Fino a sembrare ciula in effetti e a dare l’idea che mi si possa trattare come una pezza da piedi tanto sorrido sempre. Vado avanti così un sacco di tempo. Trovo una motivazione agli sgarbi, alle mancanze, alla superficialità, alla noncuranza nei confronti dei miei sentimenti anche per giustificare a me stessa il tempo che ho investito in quella relazione, amicizia, amore o lavoro che sia. Finché mi stanco. E a quel punto smetto di arrabbiarmi e la persona cessa di esistere nel mio mondo. La corda si rompe e la butto pure via. E incredibilmente mi sento libera e leggera, perché le giustificazioni nei sentimenti sono un fardello pesante, una zavorra al cuore. Non sento più nulla e tutto diventa parte di un passato che non può tornare. Le persone devi amarle quando le hai accanto, non quando le hai esasperate e se ne sono andate. Nulla di più vero. Non tirate la corda. Rispettate gli altri. Siate leali, onesti, sinceri. Parlate chiaramente e non prendetevi gioco degli altri. Perché pentirsene dopo ha davvero un sapore amaro.
Libertà di essere sè stessi
Ho passato una vita a sentirmi inadeguata. Le mie amiche avevano sempre qualche cosa in più di me. Più altezza, più fidanzati, più simpatia, più tette, più fascino, più più. E io annaspavo. Non le invidiavo, quello no, perché l’invidia non me l’hanno data in dotazione di serie, ma le ammiravo. Cercavo di imitarle. Mi interrogavo tutte le sere che cosa ci fosse in me che non andava. Perché non ero mai la migliore amica di nessuno. Perché venivo costantemente mollata dopo poco dal moroso di turno che avevo convinto a fatica ad uscire con me. E visto che sono una da mille seghe mentali cercavo di capire quale fosse il modo per essere come loro. Eppure mi vestivo alla moda. Ero studiosa ma perché mi piaceva e passavo i compiti a tutti. Ero piccolina ma mica male, nonostante quei ricci che odiavo in un momento in cui andavano i capelli lisci lisci. Ero complicata, sì, tanto ma con me stessa, non con gli altri. Mi sentivo lo stesso a disagio. In difetto. Anche se viaggiavo un sacco. Anche se grazie ai miei genitori mi confrontavo con persone da ogni parte del mondo. Anche se ero felice. È andata avanti tanti anni questa cosa del disagio. E infatti sono davvero poche le persone con cui ho un legame forte. Poi l’età mi ha insegnato a fregarmene. Ho imparato a stare da sola. Ho incominciato ad accettarmi per come sono. Anche se convivere con me stessa vi assicuro che non è facile. Ci litigo almeno una volta al giorno come con il più esigente degli amanti. Perché sono impulsiva, intransigente, perfezionista, insicura, ed è spesso un gran casino. Oggi però mi guardo e penso che mi vado bene così. Che ho fatto davvero tanta strada e che mi sono rialzata tante volte, sempre più forte. Che non sarò mai come le mie amiche da ragazza ma sarò io, Lacolli. E almeno non dovrò fare fatica ad esserlo. Che la vita è già così dura e non vale la pena di fingere di essere altro. Sono convinta che essere sè stessi sia la più alta forma di libertà in una società in cui la finzione è diventata abitudine. Per cui vi chiedo scusa per il carattere ma prendere o lasciare, così è se vi pare 😉
Bello
Ho trascorso due ore seduta davanti al computer litigando con un aggettivo. Bello. No, non un bell’aggettivo. Ho bisticciato con l’aggettivo bello. Troppo banale, troppo generico, troppo scontato. E allora vai di interessante, suggestivo, affascinante, gradevole, carino, magnifico, stupendo, prezioso…e così via fino alle soluzioni più stucchevoli come ben fatto. Che peraltro si riferiva a un cane e un cane ben fatto fa orrore solo a immaginarlo. Ho cercato pazientemente una soluzione che mi suonasse bene, che non fosse ripetitiva o cacofonica. Pian piano la pazienza mi ha abbandonato e alla ventesima rilettura ho sfanculato un aggettivo. Sì proprio così. Il turpiloquio ha preso il sopravvento e ho sfogato le mie frustrazioni con un aggettivo. Che poi è un attributo. E gli attributi li ho tirati in ballo oggi pomeriggio. Non begli attributi comunque. Che anche “begli” che orrore. Alla fine ho lasciato bello. Bel cane. Ha vinto lui. Ho litigato con un aggettivo, l’ho insultato e alla fine ha pure avuto la meglio. Potrei passare ore su un termine che non mi piace, perché le parole sono importanti e costruiscono la realtà. Che questo sia poi un po’ folle…bè non ho mai preteso di essere normale….😜
L’amore è un romanzo russo
Mi chiedi se penso a lui adesso, nel buio della stanza prima di dormire. Ci penso con ogni cellula del mio corpo. Ci penso anche se non voglio. Ci penso anche se non devo, perché non mi vuole più, perché forse c’è un’altra che lo diverte più di me, perché ho fatto il mio tempo e le cose finiscono. Tutte. Ci penso però. Penso a tutto l’universo che avevo costruito su di noi. Ai tanti momenti insieme, ai sogni, alle immagini, alle fantasie. Ci penso così tanto che mi sembra di impazzire e mi sento così stupida. Ci penso e vorrei tornare indietro ma indietro non si torna e io non sono più quella una volta e lui non è più quello di qualche mese fa. E come faccio adesso? Come faccio io? A fare finta di nulla. A cancellare i sentimenti. A buttare tutto nei ricordi. A vivere come se nulla fosse. Come faccio? Ci penso e questo pensiero mi succhia via tutta l’energia. Non riesco a fare nulla. Sono stanca, sempre stanca. Dimentico tutto. Ci penso e mi dico porta pazienza e ti passerà. Ma non passa e io non ho mai avuto pazienza. Ci penso e vorrei solo svegliarmi domani e rendermi conto che è stato un brutto sogno, che nulla è cambiato. Ma questo è un finale da film americano, un lieto fine. La realtà ha invece spesso epiloghi da romanzo russo, malinconici, tristi, difficili. Ci penso sì ci penso. Non sai quanto.
Noi donne
Noi donne abbiamo un’energia straordinaria. E non lo sappiamo. Basterebbe ricordarsi che abbiamo il potere di dare la vita, una magia che diamo scontata e che invece è di per sè segno di una forza unica. Noi donne nasciamo e moriamo infinite volte: alla fine di un amore, dopo una delusione sul lavoro, quando litighiamo con un’amica, al termine di una giornata che anche no. Noi piangiamo, urliamo, singhiozziamo, vorremmo spaccare tutto e magari lo facciamo, non mangiamo, ci ubriachiamo. Sfoghiamo. E la mattina dopo rinasciamo. Con mille strascichi ma lo facciamo. Con venti rughe in più ma lo facciamo. Con un mal di testa atroce ma sorridiamo. Noi donne ci incazziamo, molto. Basta vederci al volante. Ci incazziamo e ci vendichiamo. Inutile fare i perbenisti. Noi donne superiamo ma non dimentichiamo, mai. E se possiamo, la facciamo pagare. Poi abbiamo i rimorsi di coscienza ma intanto quella stronza che mi ha fregato il marito ha perso il lavoro e io godo come un riccio. È natura ragazze. Pensate a cosa hanno combinato Medea, Deianira, Clitemnestra, leggete qualche tragedia antica e poi ne riparliamo. Noi donne amiamo. Amiamo così tanto che ci scoppia il cuore. Per amore facciamo viaggi lunghi ore, non dormiamo la notte, rinunciamo ad una promozione, cambiamo colore di capelli, ci facciamo piacere la musica che piace a lui, il cibo che piace a lui, perfino il golf e le domeniche in casa a vedere la partita, mano nella mano, sul divano. Riusciamo pure a dimenticare la nostra dignità. E questo è il nostro tallone d’Achille più grave. Gli uomini ci hanno dato una costola millenni fa e noi gli regaliamo anima, cuore, cervello. Noi donne dobbiamo ricordarci che vogliamo un uomo accanto ma che non ne abbiamo bisogno, che non c’è nessuno che sia così importante da costringerci a rinnegare noi stesse, che la mattina davanti allo specchio dobbiamo piacere a noi stesse, soprattutto a noi stesse. Noi donne siamo forti. Ma ce lo scordiamo. Dovremmo tapezzare la casa di biglietti che ce lo ricordano. Dovremmo rileggere la storia di tante donne in gamba che hanno cambiato il mondo. Dovremmo analizzare una nostra giornata e renderci conto della miriade di cose che facciamo, dei problemi che risolviamo. Dovremmo essere fiere di noi. Dovremmo premiarci ogni volta che ci rialziamo dopo una caduta, un sacco di premi sarebbero. Noi donne. Noi, che non molliamo mai
Mi piacciono
Mi piacciono gli uomini semplici. Quelli con un po’ di pancetta. Quelli che non si tingono i capelli. Quelli che non si preoccupano se non ce li hanno più i capelli. Quelli che non fanno la ceretta, a meno che non siano atleti o siano affetti da irsutismo. Quelli che al primo appuntamento offrono la cena e ti aprono la portiera dell’auto. Ma che dopo un po’ di tempo accettano di fare a metà e di muoversi in metro. Quelli che ti tengono testa e vogliono sempre avere ragione, ma alzano le mani solo per accarezzarti e farti godere. Quelli che ti dicono che sei la più bella del mondo ma meglio che ti sposti che sei davanti al televisore e non vedo la partita. Quelli che ti organizzano una super festa a sorpresa per il compleanno e poi si dimenticano l’anniversario. Quelli che non ostentano, auto, orologi, vestiti firmati, perché scelgono di essere, non di apparire. Quelli che non ti mettono in soggezione, che non ti fanno sentire sempre sotto esame, che ti accettano per come sei. Anche se sei una rompicoglioni e te lo ripetono spesso. Quelli che ci sono. Quando non riesci ad aprire la bottiglia. Quando devi piantare un chiodo. Quando piangi perché la tua migliore amica è una stronza. Quando sei triste e vorresti spaccare tutto. E non sai perché. Quelli normali si siedono accanto e ti ascoltano. Pensando ad altro ma ti ascoltano. Perché ti amano. Ecco. Questi uomini sono quelli che valgono la pena. Sempre
Titoli di coda
Le storie d’amore hanno spesso dei titoli di coda lunghissimi. Sapete che le cose non funzionano più. La passione è venuta meno. Quelle giornate bellissime trascorse a cercarsi non ci sono più. Siete lontani, anche se dividete lo stesso letto. L’amore eterno che vi siete giurati è un buongiorno distratto e una buonanotte scontata. Quello che era fermento, eccitazione, voglia è diventato abitudine. E nulla distrugge più i sentimenti dell’abitudine. Tutti i sentimenti, non solo l’amore. Eppure, anche se senti che siete un pallido ricordo di quello che eravate, stai lì. Aspetti. Che si torni indietro. Che il fuoco riprenda vigore. Che tutto torni come prima. Provi ad affrontare il discorso. Provi a cambiare. E per un po’ tutto decolla, o sembra. Ma se tu cambi ritrovi lui, forse, ma perdi te stessa. E i conti alla lunga non tornano. Tieni duro, hai investito troppo in quella storia, sarebbe un fallimento, per te, per voi. Se ci sono dei figli poi i titoli di coda giustamente possono durare anni. Perché loro vengono prima di tutto e fa niente se tu non sei felice. I titoli di coda. Gli uomini li adorano. Loro non prendono mai la decisione finale, perché riescono a stare benissimo nel limbo, nella pace sicura della quotidianità, e al massimo fanno incursioni in altri cuori, senza particolari tormenti. Le donne no. Sono logorate dai titoli di coda e il rischio più grande è che smarriscano la favola che hanno vissuto. Perché è stato bellissimo. È stata una favola. E a un certo punto va bene anche che finisca. Allora alzatevi dalla poltroncina e uscite dal cinema che ha appena proiettato la vostra splendida storia d’amore, non state lì immobili davanti a uno schermo ormai nero in cui trascorrono nomi e segni per voi vuoti di senso. Uscite e dite basta. Vi mancherà. L’abitudine manca. Crea vuoto. Ma i vuoti sono contenitori fantastici da riempire con vita nuova. Siate coraggiose. Farà male ma mai quanto perdere il ricordo di ciò che è stato. I titoli di coda portano recriminazioni, discussioni, malessere. Lasciateli perdere. Vivete e sorridete. Siate voi stesse. Sempre. E non abbiate paura. Mai.
Mani
Non è sempre facile. Non lo é stato e non lo sarà. Ti conosci che stai iniziando ad affacciarti alla vita e hai davvero tutto davanti. Sei piena di sogni e sei sicura che si avvereranno. E una sera, complici il vino e del buon rock, inizi a camminare mano nella mano con lui. Non sai dove andrete e per quanto tempo, ma senti che quella mano è salda e stringe forte la tua. Pian piano diventate adulti, che non è che vi piaccia un granché, e ogni volta che potete cercate di tornare ragazzini, un concerto, una serata a fare tardi, un viaggio, una follia. A un certo punto decidete di scommettere su queste mani che si stringono e la vita diventa a tre, e poi a quattro. E non è facile. Il quotidiano mette alla prova, la stanchezza, il lavoro, i figli, i pannolini, le pappe, i vaccini, l’asilo, le elementari, le medie, le rughe, il colpo della strega, la lontananza, l’età che passa. No non è facile. E si discute tanto, perché tu non sei remissiva e lui nemmeno. Eppure appena possibile quelle mani si stringono, prima di dormire, camminando per strada, sul divano la sera cotti da una giornata. E la stretta è la stessa di quando avevamo vent’anni e la vita tutta davanti. Io non so spiegare l’amore. Ma credo davvero che sia questo, la mia mano nella tua.
Sola
Sentirsi sola. Anche quando sola non sei. Perché la solitudine è una condizione che raramente dipende dagli altri. Se così fosse basterebbe fare una telefonata, mandare un messaggio, premere un campanello. E invece ci si sente soli anche in mezzo alla gente, ad una cena, mentre fai un aperitivo, in una discoteca. Perché manca qualche cosa. Mancano due occhi che ti capiscono, una mano che stringe la tua, una parola sussurrata, la voglia di condividere. Non è questione di essere soli, condizione a volte terribilmente rilassante, ma di sentirsi soli. In una casa troppo silenziosa. Accendi la musica. Ma ogni nota fa eco al vuoto che hai dentro. Guardi il telefono e sembra che nessuno di ricordi di te. Tanti messaggi, nessuno per te. Per chi sei. Per i tuoi sensi. Non per cosa fai, per ciò che dai, per quello che rappresenti. Sentirsi sola. Capita. Ogni volta che rallenti il ritmo delle cose da fare che servono a riempire il vuoto. E allora ti metti davanti allo specchio e ascolti il tuo respiro. Pensi a cosa sei. Rincorri il ricordo di un’emozione. Apri un album di fotografie. Piangi. E la solitudine passa. La riempi di te. Della tua voglia di essere e di fare. Di ciò che sei stata e sei. Perché non saremo mai sole finché nel silenzio potremo ritrovare noi stesse. Senza bugie e senza paure. La solitudine rende più forti, o almeno è bello credere che sia così.
Vivere
Era il 4 luglio 2003. San Siro. Il cuore pieno di energia ed eccitazione per quel concerto sognato da tempo. Ma anche di amarezza per quel dolore che non passava. Due mesi prima il bimbo che cresceva dentro di me aveva deciso di andare a volare lassù, angioletto tra gli angioletti. Ed io ero morta un po’. Come sempre nei momenti più duri della mia vita, dopo una settimana di pianti, mi ero fatta la doccia, mi ero truccata, infighettata, indossato il sorriso migliore e ripreso il quotidiano. Con tutta la forza di cui ero capace. Ma lui era lì, e ogni sera mi chiedevo se avrei superato anche quello. Poi quel 4 luglio. Ottantamila persone. San Siro che trema. E lui che intona Vivere. Anche se sei morto dentro. E devi essere sempre contento. Ho pianto tutto il tempo però ho ripreso a vivere. Non so se sia stato Vasco, la canzone o se solo i tempi erano maturi. Quella sera abbiamo concepito Leo, il mio ragazzo speciale, decisamente rock. Da allora ogni volta che qualcosa non va ascolto o canto questa canzone. Per sorridere dei guai, così come non hai fatto mai. E poi pensare che domani sarà sempre meglio!