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cricolli

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Proud to be American

L’America che amo è quella lontano dalle città. Quella delle distese infinite, dei canyon, dei deserti, dei campi irrigati a perdita d’occhio, delle pianure punteggiate qua e là da ranch e da silos per l’acqua. L’America che amo è quella conquistata dai pionieri, dai cercatori d’oro, sí da quei delinquenti pronti a tutto, in cerca di fortuna, in fuga dalla miseria, avanti, sempre avanti, verso ovest. L’America che amo è quella degli indiani e delle loro tradizioni, difese con i denti, tutelate con dignità, riconquistate pian piano e palpabili in ogni angolo di quelle che una volta erano davvero le loro terre. L’America che amo è quella delle cittadine che ho attraversato oggi, vie con poche case intorno, ad ogni angolo una bandiera americana, a ricordarsi chi sono. Sí perché quello che unisce i discendenti dei pionieri, francesi, inglesi, danesi, italiani, spagnoli, tedeschi, irlandesi, e degli immigrati più recenti, messicani, giapponesi, orientali, indiani, ecco ciò che li unisce è quella bandiera. Non una storia come la nostra, lunga duemila anni, ricca, complessa, poderosa. No. No. La loro storia è brevissima, centocinquanta, duecento anni al massimo. Eppure in un tempo breve loro sono diventati un popolo. Unico. Composito da etnie diversissime. Con mille contraddizioni. Ma con un unico credo comune, la patria. Proud to be American. E lo percepisci. Ad ogni angolo. E li invidi. Perché noi che siamo italiani, la culla della civiltà, questo orgoglio non lo abbiamo. Noi che abbiamo una storia comune in fondo, dimentichiamo di chi siamo eredi, di quanti italiani di cui vantarsi ci siano stati, di quanto ci è costato diventare una nazione. L’America che amo è questa. Quella a stelle e strisce. Sulle bandiere, sui muri, nel cuore. 🇺🇸

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Alcatraz

Avete diritto a vitto, alloggio, indumenti ed assistenza sanitaria. Tutto il resto consideratelo un privilegio.

(Numero 5, Regolamento del penitenziario di Alcatraz, 1934)

Visitare Alcatraz è un brivido continuo, lungo la schiena e sulla pelle. Merito anche della visita guidata attraverso audioguide, che ti immerge nell’atmosfera di quei muri, tra le celle, tra i detenuti. Senti il silenzio, il freddo, le grida. Percepisci la mancanza di aria, luce, libertà. Guardi fuori e vedi San Francisco, bellissima in questa giornata di sole e vento, inarrivabile per chi stava scontando qui la sua pena. E questa doveva essere davvero una tortura, nell’ora d’aria, raramente concessa, vedere come un miraggio quella libertà così vicina eppure irraggiungibile. Delinquenti della peggior specie ma anche ladri, borseggiatori, scappati da altri penitenziari e relegati qui, nel carcere senza via di fuga. Come dice il direttore a Clint Eastwood nel celebre “Fuga da Alcatraz”, “Alcatraz è una prigione che vanta la massima sicurezza e pochissimi privilegi. Noi non creiamo buoni cittadini, però creiamo dei buoni detenuti”. Al Capone ne uscì matto, alcuni tentarono la fuga, nessuno vi riuscì mai. Una visita che fa riflettere. Che fa capire quanto vale la libertà. Quella libertà che ci appare scontata e su cui non ci soffermiamo mai abbastanza. Perché, come scrive Montesquieu, la libertà è quel bene che ti fa godere di ogni altro bene.

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San Francisco

San Francisco mi accoglie in una giornata di sole, l’aria fresca, il cielo azzurro senza nuvole. Una metropoli che non sembra una metropoli. Verde, tanto verde, lungo i viali, nei parchi, nell’ampia zona litoranea. E queste case a due piani, dai colori tenui, che si aggrappano alle strade in salita e in discesa, e sembrano sorriderti mentre le guardi meravigliata, incollata al finestrino dell’auto. Come nel film “Sweet November”, lo ricordate? Che gli Stati Uniti li conosciamo un po’ tutti dai film (e i miei figli ora dai giochi della XBox) e questo li rende a tratti stranamente familiari. San Francisco è anche il Golden Gate, elegante, maestoso, semplicemente bello, su un mare battuto dal vento, solcato dalle barche a vela e lí, in mezzo, Alcatraz. Da brividi. Una città unica, questa. Che non ha l’estensione paurosa di Los Angeles. La frenesia di New York. L’aspetto europeo di Boston. L’estrosità di New Orleans. La freddezza di Chicago. La potenza di Washington. E che pure è anche tutto questo. Una città che sembra europea ma che di europeo non ha nulla. Anzi. È libera, semplice, giovane, beat. Tutto quello che non è l’Europa. San Francisco conquista e affascina. Come una bella donna, struccata, in scarpe da ginnastica, che non se la tira. Ma che, quando sorride, non lascia scampo.

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USA 🇺🇸

Ho visitato gli Stati Uniti la prima volta trent’anni fa. Ero una ragazzina eppure ricordo le emozioni di quel viaggio, i grattacieli, i colori sorprendenti della natura, la sensazione che in quel paese tutto fosse grande, le auto, gli spazi, i piatti serviti al ristorante. Sono tornata poi molte volte da allora, periodi brevi, periodi lunghi, nelle città o nei grandi parchi che costellano questo immenso territorio. E ogni volta mi sento perfettamente a mio agio. Sono innamorata degli States, sebbene ne colga le mille contraddizioni. Sono innamorata del profondo senso di libertà che vi respiro. Del rispetto per la propria nazione e delle tante bandiere esposte in ogni casa, locale, palazzo. Dei grandi parchi che offrono panorami senza eguali e delle città, caotiche, luminose, insonni. Di questo popolo caciarone, un po’ come noi italiani, un insieme di razze e di colori, estroverso, esagerato, in tutto. Adoro girare gli Stati Uniti in auto, on the road, dalle strade dritte dritte in mezzo al nulla alle autostrade a cinque corsie di Los Angeles. Conoscere, indagare, provare. Profumi, colori, sapori. Senza sosta. Perché, come dice Kerouac, “Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?”

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Carmel e la Beat Generation

L’auto imbocca una via in mezzo ai pini marittimi e sale attraverso ville e cottage eleganti. L’aria è fresca, ormai lontano il caldo torrido di Los Angeles. Il cielo blu, senza nuvole. Ad un certo punto si incomincia a scendere e appare il mare, cobalto ricamato dalla spuma bianca delle onde, gli scogli popolati da gabbiani che paiono in posa per una fotografia. È la stupefacente 17-Mile Drive, strada che lambisce la costa del promontorio di Monterey, che costeggia i campi da golf più belli del mondo e ville da sogno affacciate sulle scogliere. La sabbia è bianchissima, quasi accecante, in un delizioso contrasto con il verde, il giallo e il rosso dei cespugli di arbusti che arrivano fino al mare. Un piccolo paradiso. Cantato da scrittori e poeti della Beat Generation, immagine di quella California che Jack Kerouac definisce “candida come bucato e con la testa vuota“. Perché per loro rappresentava la fine di un continente, dell’East e dei suoi pregiudizi europei, la costa del sole e della libertà, delle notti brave, caotiche, allucinate, al cui fondo quei giovani, santi ribelli cercavano “un’esistenza autentica e il significato assoluto della vita”. Ecco, percorrendo questa strada ho afferrato meglio questa loro visione, mi sono sentita anche io un po’ beat e ho adorato sentirmi così. Immaginando di incontrare Clint Eastwood, altro mito americano e non solo, che qui ha sempre vissuto. E quel suo sguardo, profondo, magnetico, unico, con cui, ne sono sicura, ha più volte fissato questo mare nero in cui nuotano le balene.

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Giornata mondiale del bacio

La prima volta che l’ho baciato ho capito subito che sarebbe stato qualche cosa di diverso, di importante. Sì, lo so, lo dicono tutti quando credono di aver trovato l’uomo giusto, salvo poi affermare che era solo un’illusione, nel caso la love story naufraghi nel peggiore dei modi. Lo so, eppure è così. Avevo 18 anni ed ero uno scricciolo pieno di dubbi. Era sabato sera ed ero andata alla festa di compleanno di una mia amica in un bel ristorante della mia città. Avevo indossato un tubino nero di velluto che mi faceva ancora più minuta e piastrato i capelli, che portavo lunghi lunghi. Un po’ di trucco e pure un paio di tacchi. Dopo il ristorante avevo raggiunto degli amici da Pepe, una discoteca della zona, o meglio, la discoteca, quella con la musica più bella, quella dove si andava sempre per ballare come matti con la musica del Duli. Il Duli era un dj decisamente figo che ci ha cresciuti tutti con la musica dei Cure, dei Clash, dei 4 no blondes, e poi tutti i grandi, Doors, Stones, Eagles. Si rientrava a casa così sudati da doversi fare la doccia prima di dormire. Ecco, quella sera disco. Un po’ imbustata in quel vestitino, che da Pepe si andava in jeans e maglietta, che poi scattava il momento delle “pogate” e tutti ti spingevano di qua e di lá e dovevi essere comoda insomma. Entrata, lo avevo subito visto. Uscivamo in compagnia insieme già da qualche mese, me lo aveva presentato un amico di un’amica e io ero rimasta folgorata. Lui, niente. In tutti i modi avevo cercato di fargliela capire ma ero un po’ più timida di ora, decisamente più insicura, o forse lui non voleva capire. Altre ragazze intorno, nessuna. Dopo tre mesi di tentativi ero arrivata alla conclusione che fosse gay. Che peccato! Così figo, così interessante. Come al solito, avevo detto alla mia amica, quelli che mi piacciono hanno sempre qualche ma. Però quanto era bello, pensavo quella sera del 30 gennaio 1994! I capelli dritti lunghi fino alle spalle, i jeans stretti, la camicia bianca e quell’aria un po’ assorta che si allargava spesso in un sorriso. Stavo lì in mezzo al casino e lo guardavo ballare e fumare. Neanche mi vede. Una birra in mano, appoggiata in un angolo del bancone, che di ballare neanche a parlarne quella sera: qualcuno aveva rovesciato l’impossibile sulla pista ed io volevo evitare di volare per terra con il mio bel tubino. Ecco che viene al bar e mi vede. E si avvicina. E mi parla. Che mi dice? E chi se lo ricorda? So solo che dopo cinque minuti lui era seduto su di uno sgabello, io in piedi di fronte e mi abbracciava. No, non sembrava gay. E sulle note dei Cure ci siamo baciati. E ribaciati. E non abbiamo più smesso. Poi è venuto fuori che era così ciuco da non stare in piedi e che forse non lo avrebbe fatto da sano. E che non era single, ma aveva una fidanzata a un centinaio di km. Ma poco importa. In vino veritas e alla fine ha scelto me. E quei baci sono diventati il mio vizio quotidiano ❤️

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L’uomo con il collare

L’uomo con il collare. È la nuova specie che si aggira negli aeroporti di mezzo mondo. No, tranquilli. Non si tratta di un tentativo di mogli gelose di tenere al guinzaglio compagni fedifraghi. No. Qui l’uomo agisce in totale libertà, ne sono certa. Si muove trainando il suo trolley, tra imbarchi, controllo passaporti, duty free. Sempre con il collare addosso. Ovvero con quella ciambella gonfiabile che serve a tenere il collo dritto quando ci si abbiocca in aereo. Oggetto utilissimo di per sè, ma destinato al volo appunto. Non alla terra. In attesa del prossimo imbarco, invece, l’uomo con il collare non lo toglie. Neppure seduto al ristorante mentre mangia un hamburger. Teme forse di non riuscire a riposizionarlo correttamente? Non riesce più a toglierlo perché si è incastrato come certi pezzi di lego? Aspetta l’arrivo per sgonfiarlo definitivamente e liberarsene? Ha frainteso l’uso e pensa sia l’ultimo ritrovato per la cervicale? Si sente figo? Altroché Emigratis. Non si può vedere. Beve pure il caffè con il collare e rischia di sporcarsi perché non riesce a piegare il collo indietro. Ebbene sí, amici miei. L’uomo col collare batte quello con il borsello e quello con sandali e calze. Quando, per inciso, l’uomo in questione non indossi anche sandali e borsello. In questo caso non si può aggiungere altro. Solo distogliere l’attenzione. Che la cervicale, altrimenti, viene a me 😜

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Capirsi è possibile

Non comunichiamo. Non ci capiamo. In una società piena di parole, suoni, post, tweet, chat spesso non riusciamo a far comprendere all’altro ciò che proviamo o pensiamo. È un grande problema. Eppure basterebbe usare lo stesso codice. A scuola ci hanno insegnato che alla base della comunicazione ci sia l’uso di un codice, ovvero di un insieme di segni (parole) che siamo comprese da chi parla e da chi ascolta. Ecco. Noi spesso parliamo una lingua che l’altro non capisce. O non vuole capire. E non perché è straniero. No no. Perché è su un’altra linea d’onda. È straniero di pensiero. Ecco perché ho scelto di scrivere di sentimenti, passioni, vita quotidiana. E di farlo in un linguaggio immediato, diretto, colloquiale. Sui social come nei miei libri. Perché lo so che non è letteratura alta, che dovrei soffermarmi a descrivere, a tracciare tipi psicologici, a narrare vicende con un tono più aulico, letterario. Lo so che il mio blog è leggero e senza pretese, che non è certo un saggio di filosofia o di antropologia o di storia locale, come quelli che pure ho scritto. Che oggi mi sono pure sentita inadeguata per questo, perché tu puoi scrivere meglio, puoi arrivare più in alto. Lo so. Ma io voglio parlare a te. E a te. E anche a te. E voglio farlo in modo diretto e senza peli sulla lingua. Voglio farlo senza sconti. Senza figure retoriche altisonanti. Sì, così. Perché voglio che tu capisca. Che vale la pena. Che la vita è dura ma non c’è nulla di più bello. Che volersi bene è una scelta. Che l’amore è il motore di tutte le cose, quell’Amor c’ha nullo amato amor perdona, per dirla con Dante. Che si deve lottare per raggiungere i propri sogni e che nessuno ti regala niente. Voglio dirti cose semplici, così semplici che ce le dimentichiamo. Come mi ha insegnato mio papà, che, dirigente d’azienda a livello internazionale, parlava in dialetto ai suoi dipendenti. Perché era il veicolo più diretto e perché così si capivano alla perfezione. I paroloni sono spesso vuoti e i grandi capolavori contemporanei sono letti e compresi da pochi. Io voglio regalarti parole piccole ma piene, che ti penetrino nel cuore e ti spingano all’azione, parole semplici che puoi donare ad altri. Per comunicare con altri. Per capirsi meglio. Ti dono questo. La mia mano. Il mio cuore. La mia anima. Semplicemente.

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La cultura è l’unica droga che crea indipendenza

Ieri ho sistemato dei faldoni in un armadio e, aprendo cartellette e raccoglitori, ho rivisto vecchie pagelle, attestati, carte, che mi hanno trascinato in un vortice di ricordi. Ho sempre amato studiare e la mia adolescenza è stata animata davvero da “uno studio matto e disperatissimo”. Cercavo risposte nei libri, trovavo domande su cui riflettere per ore, storie di grandi condottieri, rime perfette di poeti immortali, pagine che si sono tatuate nella mia mente. Ho amato i greci e i latini con una passione totale, e loro mi hanno ricambiato come il più dolce degli amanti, regalandomi la letteratura, la filosofia, la tragedia, che per me, per dirla con Tucidide, sono diventate “un possesso per sempre”. Tradurre un brano era la sfida quotidiana per comprendere il senso profondo di quel testo, arrivare alla parola giusta, renderlo mio, riscriverlo nella mia lingua e non dimenticare mai cosa portava con sè. Perché la cultura non è un elenco di nozioni, ma un approccio all’esistenza che significa curiosità, meraviglia, attenzione, voglia di nutrire il proprio spirito. La cultura è la più potente delle armi contro le violenze e i soprusi, ci rende forti e consapevoli, colora il nostro mondo di sfumature tutte nuove perchè porta con sè il pensiero dei secoli. Leggete, studiate, osservate. Non permettete di farvi confondere con i paroloni vuoti, non accettate senza conoscere a fondo, non fermatevi all’apparenza. Perché, come ho letto da qualche parte, la cultura è l’unica droga che crea indipendenza.

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A furia di tirar la corda, si rompe

Sono una di quelle che dá sempre un’altra possibilità. Ad amori, amicizie, rapporti di lavoro. Perdono tutto e di più. Mi metto in discussione e mi interrogo su quali siano le mie responsabilità se qualche cosa non sembra più funzionare. Trovo mille giustificazioni per l’altrui comportamento e nessuna per il mio. Fino a fare decisamente la figura della sprovveduta e dell’ingenua. Che, per inciso, non sono. È che ci credo nei rapporti, soprattutto quelli in cui ho investito, e non mi sembra possibile che altri invece li calpestino senza riguardo, approfittando della mia disponibilità. Poi, improvvisamente, dall’oggi al domani, chiudo la saracinesca. Cancello la persona in questione. Non mi arrabbio più. La corda, a furia di tirarla, si rompe, mi diceva sempre mio papà. Ecco, quando il livello è colmo, dopo mille rinvii, io chiudo. Senza appello. La mia mente, il mio corpo, il mio cuore diventano impermeabili e rifiutano quello che prima cercavano. Perché sono buona ma non ciula. E, come tutte le persone buone, quando mi stanco, è davvero per sempre. Con dolore. Ma per sempre.