25 anni fa la strage di Capaci. Me lo ricordo quel giorno. Benissimo. Erano i giorni più duri della mia adolescenza, e forse anche della mia vita. Erano i giorni decisivi di una battaglia tutta personale che nel giro di poco mi avrebbe visto vincente e perdente allo stesso tempo. Perché quando fai la lotta con te stessa non vinci e non perdi. Soffri. E in quella sofferenza mi ero tuffata nella cronaca, nei giornali, nelle vite degli altri per dimenticare la mia che mi faceva davvero schifo. Davanti agli occhi le immagini dei telegiornali. Sulle mani il nero delle pagine dei quotidiani del giorno dopo, letti con avidità per capire. Scoprire. Conoscere. Che internet non sapevo neanche cosa fosse ed io ero solo una diciassettenne di terza liceo, che viveva in lomellina, lontana dalla mafia, dalla Sicilia, dalla politica, da tutto quel mondo che adesso riempiva occhi orecchie e soprattutto cuore di una nazione intera. Sono passati 25 anni. Quella ragazzina la sua battaglia l’ha vinta, anzi ha vinto la guerra, perché è stata lunga e dolorosa. E come in tutte le guerre ha lasciato ferite sul corpo e soprattutto nella mente. Ha condizionato la mia vita, le mie scelte, il mio destino. E ancora oggi è una guerra che avrei preferito non combattere, perché mi ha reso forte e debole allo stesso tempo. Sono passati 25 anni. L’asfalto a Capaci è stato sistemato. I colpevoli processati. La guerra non so se vinta ma di sicuro sedata con un armistizio, che non cancella le ferite e i troppi caduti lasciati sul campo. E mentre ricordiamo Capaci, il mondo più piccolo porta sullo schermo le immagini di Manchester ed è inevitabile interrogarsi sulla nostra natura. Sui terrorismi. Sul nostro essere homo homini lupus. Senza una risposta. Solo con tanto dolore. E, se possibile, un rispettoso silenzio.