Stazione di Copenaghen. Nove del mattino di una domenica di inizio autunno. Vento teso e nuvole che corrono veloci tra il grigio e l’azzurro di una giornata come tante. Scende le scale che portano alla banchina un ragazzo sui vent’anni, jeans neri, maglione nero, anfibi, capelli lunghi, esile come un giunco che questo vento piega facilmente. E piegarsi si piega, incespica, lo sguardo perso di occhi che riempiono un viso che doveva essere davvero bello, ma che è stravolto da qualche sostanza ancora in circolo. Non puoi non guardarlo, così fragile. Non lo giudichi, non lo biasimi, quei pantaloni che fanno fatica a stare su ti fanno solo tristezza in una mattina di vacanza. E poi accade il prevedibile. Un tonfo e lui è lì, tra le rotaie, è inciampato nella sua stessa vita e il cuore ti balza in petto. Ma si rialza, neanche si é accorto, risale la banchina e sta lì, fermo, immobile. Passa un minuto. Arriva il treno. Hai assistito alla messa in scena di tutti i detti popolari sulla caducità dell’esistenza. Un minuto e sarebbe stata tragedia. Anche se la tragedia vera è che lui non se ne è neanche accorto. Guarda il treno, sale, poi scende e mentre partiamo lo vedi allontanarsi con quel passo traballante, funambolo su una corda tesa sul nulla….