Mi è stato recentemente chiesto cosa voglia dire per me vivere in provincia e quali siano i limiti e i pregi di un’esistenza trascorsa in una cittadina come Mortara. Domanda che non mi ha sorpreso, perché non ho mai nascosto la mia difficoltà ad adattarmi ai ritmi e alla mentalità di questo luogo, dove pure ho vissuto da quando sono nata, quasi mezzo secolo fa. Vivere in una piccola realtà vuol dire crescere in un nido, dove tutti ti conoscono e dove quindi potrai sempre trovare un rifugio, una parola, un gesto di solidarietà.
In un paesone come il nostro non sarai mai solo, perché in fondo tutti sapranno chi sei, di chi sei figlio, che cosa fai e pretenderanno anche di conoscere i tuoi desideri, i tuoi pensieri, le tue reazioni. Tutto insomma. Un bozzolo speciale dove trovare i frammenti di una vita intera, in cui i ricordi della propria giovinezza sono a portata di mano, dove si possono incontrare al bar i compagni di scuola, i fidanzati di una volta e perdersi nel consolante amarcord del passato. Mortara è così, un piccolo nido. Eppure, quello che manca, è la libertà. La libertà di muoversi senza che questo determini commenti, critiche, giudizi. La libertà di essere ciò che sei e non quello che gli altri si aspettano da te perché sei figlio di questo o amico di quello. La libertà di uscire dagli schemi. Perché il paese, come ogni famiglia, incasella, definisce, giudica. E se per carattere non ami tutto questo allora diventa una prigione. Personalmente ho sempre preferito i grandi centri, le metropoli, dove nessuno mi conosce, dove posso confondermi nella gente, dove posso andare in giro in pigiama senza che nessuno neanche se ne accorga. Essere invisibile in mezzo alla folla. Un sogno. Che poi anche le grandi città hanno i loro quartieri che non sono altro che paesi all’interno della metropoli. In una grande città puoi passare settimane senza parlare con nessuno e questo è normale. Nel paese è impossibile. E questo è bello e terribile al tempo stesso. Il paese è fantastico nei momenti difficili perché sa circondarti con un calore inaspettato e basta allungare la mano per trovare qualcuno che la prenda. Poi però la stessa mano ti molla appena sali qualche gradino perché i piccoli centri sono per natura invidiosi e il chiacchiericcio si alimenta quanto più sei in vista. Difficile dare una risposta come vedete. Io non amo le cittadine eppure non sono mai riuscita ad andarmene da Mortara. Ci ho provato tante volte, ho viaggiato in lungo e in largo, ho imparato a osservarla da lontano e questo mi ha dato la possibilità di interpretarne meglio pregi e difetti. Un po’ come un bel dipinto, che non si può cogliere in tutta la sua intensità se non da una minima distanza. Alla fine Mortara mi ha sempre richiamato alla base e non mi ha mai nemmeno permesso di vivere nascosta, come avrei invece preferito. Ha deciso lei per me o, meglio, io ho lasciato che il dna prendesse il sopravvento e accettato questo mio essere fatta di terra e acqua, come le risaie di cui siamo circondati. «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Lo scrive Cesare Pavese ne La luna e i falò. E credo che nessuna frase possa meglio esprimere cosa significhi per me vivere in provincia.