Sapevo che quest’anno sarebbe stato particolare. Me lo sentivo. No, non mi sono portata sfiga da sola. O forse sí. Bè insomma io ho sempre pensato che i 45 anni fossero uno spartiacque, che una volta compiuti sarei entrata volente o nolente nella definizione “signora”, e aggiungerei di mezza età se gli anni duemila non avessero annullato la categoria mezza età. O sei ragazza, fino ai 70, o diventi anziana. E non me ne voglia la mia mamma che sarà una ragazza anche a centodue. Ecco, a me di compiere 45 anno proprio non mi andava. Che devo dirvi. Ho vissuto i 40 come gli anni della pienezza, non mi sono mai sentita così figa e sicura di me come con la quarantina. Ho pubblicato tre libri, ho iniziato a lavorare in tv, ho fatto pace con i fantasmi del passato, ho imparato a fregarmene del giudizio altrui, ho accettato di essere come sono. Poi l’onda si è un po’ spenta e dalle conquiste adolescenziali fatte a 40 mi sono spostata su una navigazione più tranquilla, a vista, senza quell’ansia di dire, fare, baciare, lettera o testamento che è sempre stato il mio motore. Quindi un anno che già schifavo in partenza. Poi è arrivato il virus e la quarantena, due mesi in casa, a stravolgere ogni abitudine. E tanto, troppo tempo per pensare. Non so voi, ma io ho finito i pensieri. Mi sono pure stancata di fare quello. Anche se è sempre meglio di lavare, stirare, pulire, strofinare, cucinare. Adesso mi dicono che si potrà uscire un po’ di più, ma io non è che ne abbia tanta voglia. E questo la dice lunga su come uscirò cambiata da questi 45 anni. Ho imparato che stare in casa non è male e che si può anche passare un pomeriggio sul divano senza sentirsi in colpa. Non l’avrei mai pensato fino alla fine del 2019. Ecco. Voi iniziate pure a uscire, con moderazione, mi raccomando. Io ci penso ancora un attimo. La signora quarantacinquenne deve ancora mettere a punto un piano per il futuro. Curiosi? Io si, molto 😉
50 giorni
50 giorni in casa. Sembra il titolo di un film. 50 giorni di abitudini stravolte e di ritmi diversi. 50 giorni senza poter viaggiare, uscire a cena, fare shopping, abbracciare un’amica, andare in palestra. 50 giorni che hanno sgretolato il nostro PIL e che faranno danni per i mesi a venire. 50 giorni per pensare. L’unica libertà che abbiamo avuto è stata quella di pensare. Abbiamo finalmente potuto dedicare ore a riflettere e a leggere, approfondire, indagare. Senza sentirci in colpa perché non eravamo operativi, in quel turbinio di impegni e appuntamenti che è la nostra vita. E pensare non è che faccia poi sempre bene. Voglio dire che dal pensiero filosofico altissimo alla sega mentale è un attimo. Ci vuole davvero poco a sbarellare seguendo la mente, perché anche la riflessione ha regole che vanno rispettate. In questi 50 giorni ho sentito così tante cazzate tra tv, social e radio, cazzate che finiscono per inquinare i pensieri: complotti, teorie, oscurantismi, supposizioni. Tutti a dire la loro, quando il silenzio è sacro. 50 giorni di silenzio nelle strade, ma di rumore nella testa, alimentate da un’inquietudine che ci ha reso tutti fratelli. Non so se ne usciremo cambiati. Vediamo di uscirne, poi valuteremo. Anche se credo che il cambiamento ci sarà solo in chi vuole cambiare. In chi ha capito alcuni limiti e vuole modificare la rotta. Non si cambia perché ci viene imposto, quella è solo una maschera. Si cambia perché lo decidiamo. Volete cambiare? Pensateci, se non lo avete ancora fatto. Abbiamo ancora un po’ di giorni. E dalla tragedia potrebbe uscire qualche cosa di buono. Come un vulcano che, eruttando, distrugge e seppellisce, ma nello stesso tempo rende il suolo ricco di nutrienti e minerali per la vita che verrà.
Dubbi
Vorrei aprire Facebook e ritrovare la leggerezza di qualche mese fa.
Vorrei sorridere alle tante stupidate che ogni giorno postavamo, dai meme sulla politica ai video stile Paperissima.
Vorrei ritrovare le battute sul sesso, a volte sottili, a volte così scurrili da dare fastidio, eppure italianamente veraci.
Vorrei leggere i dibattiti sul festival di Sanremo, sugli Oscar, su Bugo e Morgan, sulla candela al profumo di vagina della Paltrow, sul vestito indossato da quell’attrice e sulla fine di un grande amore vip.
Vorrei vedere le foto di giovedì gnocchi e dei tanti brindisi degli aperitivi.
Vorrei scorrere i tanti commenti politici, le dichiarazioni di quello o questo opinionista su temi vari ed eventuali, tipo le merendine o gli assorbenti.
Vorrei trattenermi dal rispondere ai soliti leoni di tastiera che infangano tutto e tutti, tuttologi sempre pronti a commentare, ma poi, in fondo, che male fanno?
Vorrei postare foto ignoranti, di tacchi, trucchi, vestiti, costumi, bicipiti e addominali.
Vorrei.
Invece.
Grafici, percentuali, conferenze stampa, lacrime per la perdita di parenti, amici, conoscenti, mascherine, guanti, corsie di ospedali, polemiche su grafici, percentuali, conferenze stampe, mascherine, politici che parlano di grafici, percentuali, conferenze stampe, mascherine. Morte. Ansia. Dubbi sul futuro. Inps che va in tilt, bonus che non arrivano, case di riposo sotto inchiesta, autocertificazioni, code al supermercato, mare sì mare no. E poi. Dolci, pizze, lievito. Allenamento tabata, yoga, cardio, stretching.
Unica costante rispetto a prima, i leoni di tastiera. Quelli non mancano mai. E i tuttologi con loro. Ora sono virologi, tutti, quando fino a tre mesi fa neppure sapevano la differenza fra virus e batteri.
Un giorno aprirò Facebook e ritroverò le sane stupidate di un tempo. Ecco, allora vorrà dire che inizieremo ad uscirne. Almeno virtualmente.
Vorrei aprire Facebook e ritrovare la leggerezza di qualche mese fa.
Vorrei sorridere alle tante stupidate che ogni giorno postavamo, dai meme sulla politica ai video stile Paperissima.
Vorrei ritrovare le battute sul sesso, a volte sottili, a volte così scurrili da dare fastidio, eppure italianamente veraci.
Vorrei leggere i dibattiti sul festival di Sanremo, sugli Oscar, su Bugo e Morgan, sulla candela al profumo di vagina della Paltrow, sul vestito indossato da quell’attrice e sulla fine di un grande amore vip.
Vorrei vedere le foto di giovedì gnocchi e dei tanti brindisi degli aperitivi.
Vorrei scorrere i tanti commenti politici, le dichiarazioni di quello o questo opinionista su temi vari ed eventuali, tipo le merendine o gli assorbenti.
Vorrei trattenermi dal rispondere ai soliti leoni di tastiera che infangano tutto e tutti, tuttologi sempre pronti a commentare, ma poi, in fondo, che male fanno?
Vorrei postare foto ignoranti, di tacchi, trucchi, vestiti, costumi, bicipiti e addominali.
Vorrei.
Invece.
Grafici, percentuali, conferenze stampa, lacrime per la perdita di parenti, amici, conoscenti, mascherine, guanti, corsie di ospedali, polemiche su grafici, percentuali, conferenze stampe, mascherine, politici che parlano di grafici, percentuali, conferenze stampe, mascherine. Morte. Ansia. Dubbi sul futuro. Inps che va in tilt, bonus che non arrivano, case di riposo sotto inchiesta, autocertificazioni, code al supermercato, mare sì mare no. E poi. Dolci, pizze, lievito. Allenamento tabata, yoga, cardio, stretching.
Unica costante rispetto a prima, i leoni di tastiera. Quelli non mancano mai. E i tuttologi con loro. Ora sono virologi, tutti, quando fino a tre mesi fa neppure sapevano la differenza fra virus e batteri.
Un giorno aprirò Facebook e ritroverò le sane stupidate di un tempo. Ecco, allora vorrà dire che inizieremo ad uscirne. Almeno virtualmente.
Lui ❤️
Mi sono innamorata di lui tanti anni fa. Ero uno scricciolo tutto capelli, piena di sogni ma anche di insicurezze. Poche storie alle spalle, tante delusioni. L’ho conosciuto in un giorno di festa, per strada, verso sera, mentre l’aria fresca di fine settembre ci ricordava che l’estate era anche per quell’anno archiviata. Era il 1993 e noi eravamo dei ragazzi di provincia, che avevano voglia di conoscere il mondo. L’ho conosciuto per caso, eppure abitavamo a pochi passi l’uno dall’altra, avevamo frequentato la stessa scuola media, avevamo amici comuni. Mille occasioni di incontrarci, eppure non era successo. Perché il momento giusto era quella sera di fine settembre. Tra le giostre di una fiera affollata. Io, piccolina, una bimba in fondo, nonostante i miei diciotto anni, con il mio maglioncino rosso 012 Benetton, miei jeans stretti e le scarpe da ginnastica. Lui. Bè lui era bello. Lo è anche oggi. Lui per me è di una bellezza speciale. Lo è sempre stato. Lo era allora, perché era diverso dagli altri. I capelli lunghi, l’aria dinoccolata, la erre moscia, quel modo di fare così perbene, che nascondeva un’anima rock. L’ho conosciuta dopo quell’anima, nelle serate fatte di musica, birra, pub, disco. Sì, ma non una discoteca qualunque. Noi si andava da Pepe, e chi abita dalle mie parti sa che Pepe non era una discoteca, era Pepe e basta. Con la sua musica fatta di Clash, Cure, con il suo interno fumoso, con il pavimento sempre scivoloso, con le pogate che mi facevano volare da un lato all’altro della pista, con il Duli come dj. Mi sono innamorata di lui due minuti dopo averlo conosciuto e se chiudo gli occhi sono ancora lì, a balbettare qualche stupidata, che le relazioni umane sono sempre state un mistero per me. Lui no. Ci ha messo qualche mese ad accorgersi di me. Ma poi si è accorto, oh se si è accorto. E senza preavviso mi ha baciato lì da Pepe, tra uno pieno di birra che sbraitava e una che accendeva l’ennesima sigaretta. Che bacio, ragazzi, uno di quei baci che si danno solo da giovani, che durano il tempo di due, tre canzoni e poi ti gira la testa. Senza fiato mi ha lasciato. Come questa mattina, quando mi sono svegliata e l’ho visto accanto a me. Dovrei essere abituata, dopo una vita insieme. Eppure mi emoziono a guardarlo. A pensare che ha accettato la sfida di una esistenza mano nella mano. Con me. Mi emoziono perché sono ancora quello scricciolo biondo e lui il bel ragazzo alto che mi ha insegnato ad amare. Che ogni giorno rende questa quarantena un privilegio, perché la vivo con lui, il mio lui ❤️
Sto
Come stai?
Sto abbastanza bene dai.
Nel senso che il virus non ha ancora bussato alla mia porta e a quella della mia famiglia. Ho il frigorifero pieno e una casa accogliente. Posso gestire il mio lavoro da casa e abbracciare i miei figli tutte le volte che voglio. Ho un buon rapporto con mio marito e questa situazione rafforza la nostra unione, perché stare insieme ci piace e non ci pesa affatto, anzi.
Un idillio, quindi. No?
No.
Perché non sto bene, fingo.
Non sto bene perché il cuore sanguina al pensiero dei troppi morti e solo quando arriverà la notizia che non ce ne sono più, ecco solo allora ricomincerò a respirare.
Non sto bene perché mi sento impotente. Vorrei fare di più, ma l’unica cosa che posso e devo fare è stare a casa. Cosa che odio nel profondo.
Non sto bene perché penso a chi ogni giorno rischia la vita al lavoro negli ospedali, nelle case di riposo, sulle ambulanze, ai tanti amici e conoscenti, e ogni sirena ho il cuore in gola.
Non sto bene perché non riesco a fare progetti. Il virus si è portato via i miei sogni e mi ha lasciato solo gli incubi ricorrenti, gente con mascherine, gente nei letti d’ospedale, gente separata da vetri che non si può abbracciare.
Non sto bene perché mi mancano le mie giornate frenetiche e l’energia ogni giorno di affrontare la vita con entusiasmo.
Non sto bene perchè ogni tentativo di reagire, vestirsi, truccarsi ha un sapore amaro, che vanifica ogni sforzo. Un pagliaccio, un joker, insomma, che dietro il sorriso nasconde un abisso.
Mi chiedi come sto.
Sto.
Punto.