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Carmel e la Beat Generation

L’auto imbocca una via in mezzo ai pini marittimi e sale attraverso ville e cottage eleganti. L’aria è fresca, ormai lontano il caldo torrido di Los Angeles. Il cielo blu, senza nuvole. Ad un certo punto si incomincia a scendere e appare il mare, cobalto ricamato dalla spuma bianca delle onde, gli scogli popolati da gabbiani che paiono in posa per una fotografia. È la stupefacente 17-Mile Drive, strada che lambisce la costa del promontorio di Monterey, che costeggia i campi da golf più belli del mondo e ville da sogno affacciate sulle scogliere. La sabbia è bianchissima, quasi accecante, in un delizioso contrasto con il verde, il giallo e il rosso dei cespugli di arbusti che arrivano fino al mare. Un piccolo paradiso. Cantato da scrittori e poeti della Beat Generation, immagine di quella California che Jack Kerouac definisce “candida come bucato e con la testa vuota“. Perché per loro rappresentava la fine di un continente, dell’East e dei suoi pregiudizi europei, la costa del sole e della libertà, delle notti brave, caotiche, allucinate, al cui fondo quei giovani, santi ribelli cercavano “un’esistenza autentica e il significato assoluto della vita”. Ecco, percorrendo questa strada ho afferrato meglio questa loro visione, mi sono sentita anche io un po’ beat e ho adorato sentirmi così. Immaginando di incontrare Clint Eastwood, altro mito americano e non solo, che qui ha sempre vissuto. E quel suo sguardo, profondo, magnetico, unico, con cui, ne sono sicura, ha più volte fissato questo mare nero in cui nuotano le balene.

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