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Attesa

Faceva caldo, troppo caldo. Nonostante fossero ormai quasi le otto di sera, l’aria era ancora afosa, senza un filo di vento, quasi irrespirabile. Seduta ad un tavolo di un ristorante in riva al mare, Laura si chiedeva se quella maledetta estate sarebbe prima o poi finita. Le temperature erano sempre state oltre il tollerabile, soprattutto per lei, tormentata dalle caldane della menopausa, insofferente all’aria condizionata, costretta al lavoro in quei vestitini molto chic che fino a qualche anno prima aveva adorato e che ora avrebbe volentieri sostituito con dei freschi prendisole. Il telefono, appoggiato a fianco al tovagliolo, si illuminò. Un messaggio dall’ufficio, l’ennesimo, a ricordarle di quanto fosse assurdo trovarsi lì in un giorno infrasettimanale, lontano dall’azienda che aveva fondato quindici anni prima e che era la sua unica ragione di vita. Nicolò, il padrone del ristorante, le si avvicinò posando sulla tovaglia di fiandra un calice di vino bianco. Conosceva i suoi gusti, erano cresciuti insieme su quella spiaggia, in quella baia fatta di casette colorate che al tramonto allungavano le loro ombre sull’acqua, rincorrendosi tra i gozzi dei pescatori e mangiando focaccia in riva al mare. Quel luogo era casa più di ogni altro posto, il suo rifugio nei momenti difficili. Guardò l’orologio, le otto e dieci. Come al solito era in ritardo. Suo fratello non aveva mai rispettato le regole né tollerato le imposizioni, era distratto e noncurante, millantava sbadataggine e invece era solo un menefreghista. Non lo vedeva da diciotto anni, da quel lunedì in cui aveva chiuso l’ennesima lite telefonica con la promessa che non lo avrebbe mai più rivisto, che per lei era morto. Ripensandoci si innervosiva di nuovo, non sopportava le persone rigide e irragionevoli e lui lo era stato. Aveva dato retta a quella arrivista che si era portato a casa un paio di anni prima incinta e buttato all’aria tutto il patrimonio che i genitori gli avevano lasciato, sperperando nel gioco e in una quantità di futili passatempi che lo avrebbero ridotto al lastrico. Laura glielo aveva ripetuto più volte, ma lui era parso sempre sordo ai suoi richiami e l’aveva pure truffata. Sì, era stata truffata da suo fratello. A quel ricordo prese dalla borsa il pacchetto delle sigarette e se ne accese nervosamente una. Il telefono si illuminò di nuovo. Le otto e un quarto e neanche si degnava di avvisare. L’aveva chiamata una settimana prima. Lei aveva risposto distratta senza guardare chi fosse e la sua voce l’aveva sorpresa. Si chiedeva ora perché non avesse attaccato subito, era stata tentata, ma qualche cosa l’aveva trattenuta. Paolo le aveva detto che aveva bisogno di parlarle, al più presto, e le aveva dato appuntamento lì, nel loro nido. Di sicuro aveva bisogno di denaro, si era detta, e aveva infilato nell’agenda il libretto degli assegni: l’avrebbe liquidato in fretta e se lo sarebbe tolto di torno per altri venti anni o, meglio, per sempre. Sorseggiando il vino si voltò verso la discesa che portava alla spiaggia e vide arrivare un uomo. Camminava lento e un po’ a fatica. I capelli radi, la schiena curva, una maglietta troppo larga e un paio di pantaloni tenuti su da una cintura tirata al massimo. Alzò lo sguardo e Laura si sentì mancare. Quegli occhi verdi si riflettevano nei suoi, ugualmente verdi, ugualmente grandi. Paolo avanzava a fatica e lei si sentì sgretolare dentro: in un attimo non ci furono più liti, ritardo, nervoso. Tutto il muro che si era con fatica edificata nel cuore si era frantumato in un attimo. Suo fratello non era sul lastrico, suo fratello era malato. Quando fu vicino al tavolo, sempre fissandola, si sedette accanto a lei e le prese la mano. Era fredda e scarna, lui che aveva sempre avuto una presa energica, e chiedeva calore. Laura la strinse, più forte che poteva, e rimasero lì, in silenzio, ad osservare il loro mare che si colorava del rosso del tramonto.

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