Quando ero piccola, a fine estate, durante il viaggio di rientro da Sestri Levante, si facevano i buoni propositi per l’anno nuovo. Che in effetti l’anno vero, quello lavorativo, quello sportivo, quello insomma in cui si fa e si disfa inizia a settembre. E così, mentre il mio adorato mare si allontanava e le gallerie facevano di continuo zittire la musica alla radio, si iniziavano a snocciolare le buone intenzioni per l’autunno. L’idea partiva sempre da papà e con gli anni ho avuto prima il dubbio, poi la certezza, che approfittasse delle due ore di viaggio in cui non potevamo sfuggire dall’auto, per farmi un po’ di ramanzina preventiva. Dalla scuola agli impegni domestici, dal linguaggio più pulito alla promessa di non rompermi più la pellicina delle dita. Così, per anni. E alla fine è diventata un’abitudine che ho trasmesso pure ai miei figli, che mi guardano con sufficienza e commentano con un “mamma scialla” che se lo avessi detto io al colli mi avrebbe probabilmente lasciato al primo autogrill. Quindi eccoci a settembre e ai buoni propositi. La pellicina non me la rompo più ma solo perché spendo soldi per lo smalto e quindi cerco di far fruttare il mio investimento. Le parolacce cerco di gestirle ma mi sono convinta anche che un certo slang renda meglio l’idea di alcuni stati d’animo, con buona pace dei miei genitori che ancora mi riprendono quando mi esprimo in toni lontani da quelli dell’Accademia della Crusca. Nel lavoro, in famiglia e negli affetti credo di essere da tempo sulla buona strada, e non ci sono state lamentele, per cui o va bene o mi hanno accettata per come sono, e non è poco. Per il resto, in questo nuovo autunno pieno di progetti, prometto a me stessa che avrò sempre di più rispetto di ciò che sono e di ciò che voglio, che ad ogni caduta mi rialzerò più forte, che non smetterò mai di pensare in grande e di mettercela tutta per realizzare ciò che penso. E se andrà male, l’anno prossimo ci riproverò. Che le buone abitudini non vanno mai abbandonate…
La via del mare
Ci sono alcuni che per festeggiare un anniversario scelgono una crociera romantica, altri un rilassante week end in una beauty farm, e altri ancora si regalano una cena speciale. Noi no. Ci sembrava troppo banale. Molto meglio avventurarsi in un trekking di tre giorni lungo la via del mare, da Capanne di Cosola a San Fruttuoso. Ne parlavamo da più di vent’anni, ogni volta che facevamo una passeggiata in costa, qui, sui monti della Val Borbera, che dal ’94 fanno da sfondo a frammenti delle nostre estati insieme. E finalmente l’abbiamo fatta. Sono stati tre giorni impegnativi, camminando in costa e nei boschi, sul sentiero e su tratti asfaltati, su e giù attraverso le valli, da Cavalmurone al Carmo, dall’Antola a Torriglia, dal Monte Lavagnola al Passo della Scoffera, da Uscio e Ruta e poi giù giù fino al mare azzurro di San Fruttuoso. 70 km, 8 ore di cammino al giorno, 2 paia di scarponi goduti e buttati nel tragitto, 2 ginocchia, le mie, che mi ricorderanno la discesa a Torriglia per un bel po’. Ma soprattutto la gioia di un passo dopo l’altro, insieme, chiacchierando, ridendo, lunghi tratti in silenzio, perché il cammino fa pensare e ti rinforza dentro e fuori. Vedere il mare che si avvicina, pian piano, capire che ce la stai facendo, anche se hai male perfino ai lobi delle orecchie, sentire i profumi che cambiano dall’Appennino all’intensa macchia mediterranea, e alla fine guardarsi sul traghetto che ci portava a Santa Margherita e sorridere dell’ennesimo tassello messo al nostro stare insieme. La nostra via del mare, zaino in spalla, mano nella mano, un cuore solo. ❤️
Dignitas
Ci innamoriamo senza un motivo preciso. Succede. Così, per caso. Per il tono della voce o per uno sguardo diverso dal solito. Per una frase detta senza pensarci troppo o per un banale scambio di convenevoli. Non lo decidiamo noi. In un mondo che controlla e gestisce tutto i sentimenti sfuggono. Anzi sono dispettosamente ingovernabili, più li ricacci da dove sono venuti più loro si accaniscono. E ci fregano sul più bello, noi, quelli tosti e incorruttibili. Ci ritroviamo a disegnare cuori sui fogli e a cantare a squarciagola Ti amo di Tozzi che neanche a quindici anni. Cosa strana questa dell’amore vero? Appiana le rughe meglio del botox, mette buonumore senza dover usare pastiglie e pastigliette, ci rende più belli senza spendere una lira. Ovviamente con il rischio che al suo venir meno saremo come dei vileda pavimenti appena strizzati. Ma in un mondo che vive per l’oggi perché curarsi del poi? Se mi tonifica anche il sedere senza dover andare in palestra prometto devozione totale a questa cosa che si chiama amore. E se non ci riesce causa forza di gravità bè vorrà dire che mi fiderò lo stesso. Ho letto da qualche parte che vale la pena, purché non si perda mai la dignità. Che amore e dignità devono andare a braccetto, se no è un gioco in cui si perde se stessi. E trovarsi già non è facile, ritrovarsi un’impresa quasi impossibile.
Ora sono io
Quando avevo 16 anni mi sono ammalata di anoressia. Anche se dire mi sono ammalata non è corretto. L’anoressia non é il morbillo o la varicella, non è che un giorno stai bene e il giorno dopo hai la febbre alta. No. È qualche cosa che si fa largo pian piano dentro la tua mente, che ha radici lontane e che quando realizzi il problema sei già fregata. E come l’herpes, una volta che l’hai contratto, ti resta dentro per tutta la vita e se ti indebolisci un attimo torna a bussare alla porta. Avevo 16 anni ed ero una ragazzina bravissima a scuola, sportiva, carina, con tanti amici. E quella del 1990 era stata l’estate più bella di sempre. Il primo vero amore e successo coi ragazzi, che a quell’età è ciò cui tutto un po’ ruota intorno. E poi è arrivato l’autunno e qualche cosa si è inceppato. Ed è stato l’inverno più brutto della mia vita, inverno fuori inverno dentro. I miei genitori che le provavano tutte ma il mio cervello si era bacato e il mio corpicino scompariva lentamente. Sempre più giù. Sola. Che a 16/17 anni se stai male gli amici magari ti cercano una volta, poi sei menosa e bum scomparsi. Tutti tranne una. Che infatti sarà per sempre quella che stimo di più. E che me ne ha dato dimostrazione anche in due chiacchiere davanti a un caffè qualche settimana fa. Una battaglia in cui c’era solo sconfitta, la mia, su tutti i fronti. Finché tocchi il fondo. O la Cristina piena di vita, energia, forza che c’era fino all’estate prima semplicemente dice basta. E con l’aiuto della famiglia, dei medici, di me stessa, sì di me stessa, pian piano inizi la risalita. Che è come scalare l’Annapurna senza ossigeno. Cadi ti rialzi cadi. Sopravvivi agli sguardi della gente, che in un piccolo paese sono sempre troppo insistenti, a chi mette in dubbio il tuo impegno, lotti con te stessa, e ci provi. Ma questo ciclone ti ha cambiato. Più chiusa, meno solare, e fragile, fragilissima. Con sensi di colpa verso i tuoi e la paura di non farcela. Incontri lui, il grande unico totale amore della tua vita. Non sai che sarà lui, ma ti appoggi totalmente a questo che diventa amico fratello amore sostegno. E lui sempre accanto a te, negli anni universitari durissimi, perché a volte le forze non bastano e il corpo migliora poi peggiora poi migliora. Su e giù, meglio ma non bene. E poi arriva la laurea. 23 anni. Perfetta come volevi tu. E non sai come inizi ad essere più sicura, ci metti più convinzione, mangi e ti alleni, che sti muscoli piccoli che siano me li sono fatti centimetro per centimetro, e lei, la stronza, se ne va. Davvero. E rifiorisci. Ma ancora devi dimostrare qualche cosa. Che puoi avere figli anche tu, anche se non hai avuto il ciclo per un po’ e da qualche parte hai letto che potrebbe essere più difficile. E lui che ti ama alla follia asseconda il tuo desiderio, subito subito. E mica può essere facile. I fantasmi tornano con l’aborto. Sto corpo di merda non ce la fa, ho rovinato tutto. Ma è un attimo, ora sei più forte. E arrivano loro, uno e subito dopo l’altro. Loro che, nascendo, mi hanno fatto nascere di nuovo. E gli anni passano e pian piano senti che non devi più dimostrare nulla, che ce l’hai fatta, che hai tutto quello che sognavi e che avevi paura di aver rovinato. E diventi sempre più sicura. Di te stessa. Del tuo corpo. Delle tue idee. Di ciò che sei. E ti piaci. Sì a quarant’anni impari a piacerti. E lui sempre con te, che è cresciuto con te e sa cosa vuol dire tutto questo. In fondo la quarantenne che vedi ora è uguale alla sedicenne prima dell’inferno, che ballava sui tavoli, che rideva sempre, che faceva il pagliaccio davanti all’obiettivo fotografico. Eccomi finalmente sono io. E a chi si chiede perché sia cambiata così, non sono cambiata. Ho solo lasciato uscire la vita e l’energia che mi scorre da sempre nelle vene e ho sepolto tutti i fantasmi. E sorrido, oh se sorrido, sempre. Che a ripensarci mi sento invincibile. E questo è fantastico.
Casinó
La vita è davvero come un grande casinó. Con l’accento sulla o, anche se, avete ragione, è pure un grande casino. Un casinó pieno di roulettes, tavoli da black jack, macchinette mangia soldi che ogni tanto si degnano pure di restituire. E ogni atto è l’esito di una scelta personale, che raramente permette correzioni. L’unica cosa che non ci é dato di scegliere è il punto di partenza, la nascita: il luogo, la famiglia, il reddito. E qui dipende dalla fortuna di ognuno, se nasci figlio di Berlusconi probabilmente sarà più facile decidere e stare a galla. Probabilmente, perché se sei un pirla lo dimostrerai comunque. La società è piena di Lapo a cui sono stati dati sacchetti e sacchetti di monete da spendere nel casinó, ma ci si è scordati del sacchetto che conteneva il cervello e allora tanto vale. Una volta nati, iniziamo a scegliere. Ogni giorno. E in ogni scelta si perde qualche cosa e forse se ne ottiene un’altra. Banalità vero? Sì molto banale. Ma in alcuni momenti, dopo anni che sei nel casinó della vita, e sai di avere puntato male qualche volta di troppo, vale la pena fermarsi. E lasciarsi andare alle banalità. Lì, fermi, in mezzo al frastuono, ricordarsi sempre che se qualche cosa non ci piace nella nostra vita è solo causa nostra, delle nostre scelte, del nostro impegno, a cui si somma la dose di culo che ognuno ha ricevuto tra i talenti. Culo non fortuna, termine più volgare ma rafforzativo necessario. Faber est suae quisque fortunae dicevano i romani, ognuno è artefice della propria sorte. E i romani la sapevano lunga. Se solo leggessimo di più i classici certe scelte magari sarebbero più facili, è tutto già stato scritto e noi qui ad affannarci per inventare qualche cosa di nuovo. Ogni giorno una scelta. Ogni giorno una fiche. E non si torna indietro. Rien ne va plus, les jeux sont faits. Che non esiste la penna cancellabile. Tutto si supera certo, ma tutto resta. E mattoncino dopo mattoncino costruisce la nostra vita. E se non vi piace, bè riempitevi le tasche di fiches e provate a giocare di nuovo, con più convinzione, con meno paura. E chi lo sa che magari farete la vincita del secolo…..
Parole inutili
Migliaia di frasi per spiegare l’amore. Libri, poesie, racconti e perfino i cartigli dei Baci Perugina. Una letteratura intera praticamente inutile. Perché quando lo vivi questo amore, pieno, totale, illogico, irrazionale, le parole vengono meno. Che un bacio come lo spieghi, come lo racconti? Sì, per carità, puoi farlo, ma diventa così un puro resoconto anatomico di due corpi che si incontrano. E fa pure un po’ schifo dai parlare di lingue che si intrecciano. E uno sguardo? Come rendi l’intensità di quegli occhi che ti leggono dentro anche mentre bevi un bicchier d’acqua e parli dello sciopero dei treni? Come puoi descrivere il colore di occhi che neanche vedi perché in quel momento sei già oltre, in un mare senza confini? E un abbraccio? Un abbraccio lungo, stretto stretto ma dolcissimo, che ti racconta che sei sua, che lo sei sempre stata, che ti vuole qui adesso subito, che ti trasmette brividi, emozioni, timori, desideri. Come puoi spiegare due corpi che si intrecciano senza scadere nel volgare di un atto che può essere letto in mille modi, e mille ancora, tutti diversi unici speciali, ogni volta, e ogni volta ancora? Non lo afferri l’amore con le parole. Scivola via. Si nasconde tra le lettere, inganna la sintassi. Ma se decidi di parlare il suo linguaggio, quello fatto di gesti ed emozioni, allora sì, risuonerà dentro te. E non lo perderai mai.
Certe notti
Certe mattine ti svegli stanca anche se hai dormito otto ore. Apri gli occhi ed è come se neanche li avessi chiusi. Sono le notti in cui i pensieri si fanno sogni e il cervello continua il suo brusio incessante, tirando fuori dai cassetti tutto ciò che durante il giorno avevi accantonato. Le notti in cui viaggi da New York a Calcutta con il fardello di tutte le emozioni represse, con la valigia dei tuoi dubbi, pesante e ingombrante. E la mattina, sdraiata nel tuo letto, stanchissima e di cattivo umore, non ricordi più nulla di questi giri della mente, ma ne senti addosso la fatica. Poi ti alzi, doccia, colazione e pian piano la notte ti lascia. Esci di casa, iniziano le corse, gli appuntamenti, la vita vera e le paturnie sfumano. Ma nei giorni così devi stare in guardia. Che basta un nulla. E il malessere torna. Che in questi giorni no, sorridere, non sai perché, è un pochino più difficile.