Non sapeva più cosa fare. Era come impietrita, i muscoli rigidi, le membra pesanti, una totale assenza di comunicazione tra il cervello e il resto del corpo. O meglio era forse quello che il cervello voleva comunicare in quel momento: stai ferma, zitta, apatica. E lascia che passi. Nel letto, gli occhi sbarrati da un’insonnia che la tormentava e che era tanto più fastidiosa quanto nuova per lei, che aveva sempre vissuto il sonno in maniera naturale, senza pecore da contare o tormenti da allontanare. Le lacrime non scendevano, nonostante il dolore. Se ne stavano lì, immobili anche loro, ad annegare un cuore che da giorni aveva finito l’ossigeno e che batteva in un corpo che sentiva estraneo. Fuori da sè stessa, spettatrice di una commedia che non le piaceva e per cui aveva pagato un biglietto davvero troppo salato, attonita, sulla poltroncina ad osservare questa rappresentazione che era la sua vita. La sua vita. Come si può essere solo spettatori del proprio esistere? Annullando il libero arbitrio e la volontà di essere prime donne del proprio destino. Nulla di più lontano da quello che era lei, da quello che erano i suoi sogni, da quello che era il disegno dell’avvenire che fin da bambina aveva tracciato con fervida fantasia e con un pizzico di incoscienza. Il telefono. Eccolo lì a suonare di nuovo, con quella musica rock che le aveva sempre dato energia e che adesso le rimbombava dentro, fastidiosa, inutile, eccessiva. E poi i messaggi, le chat, i social. Zitti tutti e lasciatemi qui, nel mio silenzio. Tra queste mura in cui l’assenza di rumori diventa assordante, in cui sono le stesse pareti ad emettere un ronzio continuo, se sei sola sei sola, e invece di proteggere lacerano ferite che stentano a rimarginarsi. Il telefono, ancora ancora ancora. Aveva provato a metterlo silenzioso, ma la vibrazione era ancora più fastidiosa, e non poteva semplicemente spegnere tutto, c’era chi poteva avere bisogno di lei, anche se non era chi lei avrebbe desiderato.
– Ciao gioia, perché non rispondi? Lo sai che mi fai stare in pensiero…
– Mamma, tutto bene. Ci sono momenti in cui non ho voglia di parlare e ho bisogno di stare sola.
– Al solito stai montando una tragedia. Lavati, vestiti, truccati ed esci. E mi raccomando mangia.
– Va bene, va bene. Ma tu non chiamare più, chiamo io.
– Vuoi che ti cucino qualche cosa? Ho su la verdura….
– Mamma, tutto a posto. Ci sentiamo.
Ecco, al solito. Sua mamma aveva 78 anni e la trattava ancora come quando da ragazzina si chiudeva in sè stessa e provava a cavarsela da sola. E non era mai stata brava a farlo, in effetti. Aveva inanellato una serie di pasticci, di corsi e ricorsi, di partite iniziate e mai finite, che alla fine l’avevano lasciata con nulla in mano. “Chi troppo vuole nulla stringe” le avevano detto una volta da bambina e ogni volta questa frase le era rimbombata dentro, ogni volta che si era buttata a capofitto in una avventura, in un nuovo lavoro, in una storia d’amore impossibile. E aveva vissuto le giornate come se avessero il doppio delle ore, riempiendo la solitudine di impegni e allontanando l’insicurezza con sfide sempre più grandi. Ad ogni fallimento o nuovo inizio però la mamma era stata lì. A chiederle se aveva mangiato e se aveva caldo in casa. Le dava noia essere trattata come una bambina insomma, ma era rassicurante e, adesso, una bambina si sentiva davvero. O meglio un essere senza pelle, in cui le emozioni entrano ed escono devastando le poche certezze rimaste, in cui si piange per un arrosto bruciato e ogni gesto ha la lentezza appannata del nonsenso. Però aveva ragione lei. Doveva almeno provarci. Quella telefonata aveva rianimato un pochino i suoi muscoli e il fastidio misto ad amore delle sue parole erano già una sensazione in quell’animo svuotato ormai da giorni.
Guardò l’ora. Le undici. Del mattino. E lei ancora nel letto. Sì, decisamente non andava bene così. Si alzò con la testa che girava per il digiuno troppo prolungato, i passi infermi di un corpo che non ha nessuna intenzione di assecondare il cervello, facendosi largo tra giornali buttati per terra, vestiti sparsi, bottiglie d’acqua e qualche cicca di sigaretta. Che schifo. Lei che era la pulizia, la perfezione, l’ordine. Il telefono, di nuovo. Nessuno degno di risposta. Ma ecco, la musica. Mancava un po’ di musica tra quelle mura, da troppo tempo. In sala, tra i cd, a botta sicura prese l’ultimo degli Stones. Se erano sopravvissuti loro, poteva farcela anche lei. Le note riempirono la casa, si inserirono in ogni fessura, colorarono di blu le pareti, le invasero la mente, mentre l’acqua della doccia bollente la avvolgeva. Un vero toccasana, a lavare fianchi, cosce, schiena, capelli, ma soprattutto nel tentativo di far scivolare via con l’acqua anche tutto il male degli ultimi giorni, il senso di delusione, la fortissima sensazione di essere stata stupida e ingenua, e, diciamolo, l’orgoglio ferito di una donna lasciata. Perché era questo che era successo. A 53 anni, dopo dieci anni di amore o pseudotale, lui era partito, andato. A seguire i suoi sogni, così le aveva detto. E lei probabilmente non lo era più per lui.
– Ciao, devo parlarti. Passo a prenderti tra mezz’ora – così le aveva scritto esattamente una settimana prima, dopo un week end trascorso insieme ai mercatini di Natale di Merano.
Tre giorni perfetti. Abbracciati stretti avevano passeggiato per le vie illuminate dalle luci e comperato mille oggetti per amici e parenti, progettando cene e serate, inventandosi addobbi e migliorie per quella che sarebbe stata la loro casa. Nonostante fossero insieme da tanti anni, infatti, avevano sempre preferito vivere separati e lasciare che i momenti insieme avessero sempre la forza di una fuga, liberi eppure intimamente inscindibili: avevano visto troppi rapporti inquinarsi per la routine e coltivavano la superba pretesa di essere diversi dagli altri. Negli ultimi tempi, però, un po’ per l’avanzare dell’età, un po’ per una voglia di tenerezza sempre maggiore e anche per una mera questione economica, avevano iniziato a cercare una casetta tutta per loro. Piccola e semplice, con tanto spazio per i libri e per i vinili, che entrambi collezionavano da sempre, grandi finestre luminose e una cucina dove sperimentare insieme. Ecco, musica, libri e cibo li avevano fatti incontrare e da sempre erano il loro rifugio da un mondo che si riempiva di tutto e si svuotava di cultura. La loro casa. Mentre si vestiva dopo quel messaggio veloce era sicura che lui l’avesse finalmente trovata. Era più bravo di lei quando si trattava di concludere affari, più paziente, più silenzioso, o meglio con una puntualità nella conversazione che a lei mancava, troppo presa dalle tante cose da dire, e poco attenta a quello che, invece, sarebbe stato meglio dire. Si era infilata un paio di jeans e un maglione caldo che aveva comperato proprio a Merano, giusto un po’ di rossetto e poca terra sulle guance. E, guardandosi, aveva pensato che tutto sommato era ancora passabile. La menopausa di due anni prima l’aveva resa più fragile dentro e più rugosa fuori, ma gli occhi, grandi e grigi, comunicavano ancora tutta la voglia di vivere che aveva dentro. Il corpo, d’altra parte, aveva perso elasticità e tono, ma al contrario di quanto avrebbe pensato anni prima quando si ammazzava di palestra, era accogliente e rassicurante. Era insomma una bella cinquantenne che nessuno si sarebbe voltato a guardare, ma che una volta notata difficilmente sarebbe stata dimenticata. Il citofono. Salita in macchina, aveva subito capito che qualche cosa non andava. Nessun bacio, silenzio. Alle sue domande, monosillabi. Arrivati in Piazza, si erano seduti in un bar, pieno di rumore e di sorrisi per le feste imminenti.
– Dimmi
– Non so da dove cominciare
– Facciamo che cominci e poi aggiusti il tiro
– Sono in partenza. Vado in Sud America, in Argentina. Un ex compagno delle superiori ha un ristorante a Buenos Aires, il suo socio lo ha mollato, mi ha chiesto se voglio subentrare. Ho affittato una casa tramite lui, e domani mattina ho il volo. Sono stanco dell’Italia, delle tasse, delle difficoltà del fine mese, di questa Europa senza futuro. La mia pensione la voglio godere là.
– Scusa, ma in tutto questo io dove mi colloco? Hai comperato il biglietto anche per me?
– No. Me ne vado da tutto. Lascio indietro tutto.
– Ma dai, potrei darvi una mano, io qui non ho nulla, non ho figli, la mamma capirebbe, mi vuole solo felice. Potremmo arredarla là la nostra casa, divertirci ad esplorare insieme l’Argentina, magari andare anche nella Terra del Fuoco e perché no all’Isola di Pasqua. Ti ricordi che bello il documentario che abbiamo visto?
– Laura vado da solo. Ti sto lasciando. Non ho nessun altro, stai tranquilla, ho solo un me stesso che vuole rinascere altrove.
Laura non aveva più trovato parole, frasi, sillabe, espressioni. Non sapeva cosa dire, e a lei non era mai capitato. La stava lasciando sto stronzo, ecco l’unica cosa che focalizzava, chiara, a lettere cubitali. Le mancava il fiato e si sentiva avvampare, dentro, fuori, tutta.
– Ho qualche responsabilità in tutto questo? – Glielo aveva chiesto così, perché non le veniva altro in mente e sulle labbra.
– No. Tu sei una persona fantastica e io ho trascorso con te i miei anni migliori. Ma adesso devo andare via, per me stesso, e portarti con me vorrebbe dire portarmi dietro anche il passato…
A “persona fantastica” era già abbastanza, “Portarmi dietro il passato” fu davvero troppo. Aveva sentito montare dentro una rabbia senza fine, avrebbe spaccato il tavolino, le sedie, e dato perfino un pugno alla cameriera con le tette troppo grosse. Lo avrebbe voluto annientare, dargli fuoco, e rinfacciargli tutti i sacrifici di quegli anni, le corse da crocerossina quando era malato, i continui prestiti di denaro perché tanti ne aveva tanti ne spendeva, le infinite domeniche con le due sorelle zitelle, il suo tirare su con il naso e quel modo odioso che aveva di girare le pagine del giornale. Avrebbe voluto vomitargli addosso tutta la rabbia che aveva dentro. E invece.
– Va bene Marco. Rispetto la tua decisione. Ti amo e voglio il meglio per te. Se mai mi vorrai io per te ci sarò sempre.
Ovvero due o tre bugie perbeniste perché le avevano sempre detto che era una signora. E la signora, a 53 anni, era rimasta sola. Mentre lui se ne andava a ballare il tango in Argentina. Un affare essere una signora.
Intanto l’acqua calda della doccia era finita e per la verità si era talmente persa nei ricordi rabbiosi di quel giorno da non ricordare se il bagnoschiuma lo aveva usato o era semplicemente stata lì, immobile, sotto una cascata di emozioni. Con un brivido prese l’asciugamano e se lo buttò addosso, con noncuranza si asciugò i capelli corti e di nuovo, ancora umida si sedette sul letto sfatto. Così adesso la mamma suggeriva di uscire. Per andare dove? Per fare cosa? Per vedere chi poi? Non aveva voglia di parlare e tantomeno di addentrarsi in un centro commerciale per comperare abiti e oggetti che le avrebbero fatto sentire ancora di più il peso della sua inutilità. Non aveva forza per fare attività fisica e neanche per mettersi a lavorare, riprendendo il progetto per il restauro che aveva lasciato sospeso il giorno di quell’ultimo colloquio al bar. Si trattava di una cascina appena fuori città, con pavimenti in cotto splendidi e travoni da recuperare: erano mesi che ci lavorava e ogni giorno scopriva soluzioni nuove che le avevano regalato davvero tante soddisfazioni. Dopo una vita a rincorrere commissioni, adesso poteva permettersi di accettare solo i progetti che la entusiasmavano e questo, tra soluzioni ecosostenibili e un portafoglio senza limiti dei proprietari, era di sicuro il più bel recupero che avesse mai affrontato. Ma adesso la matita era spuntata dal dolore, ne sarebbe uscita solo tanta banalità e stanchezza, meglio lasciarla lì. Il pensiero della cascina la accompagnò mentre si infilava una tuta e un piumino, chiudeva casa, scendeva le scale. Una volta in macchina, chiave nell’accensione, si fermò un secondo. Davvero non sapeva dove andare. Ma tanto valeva partire e cercare di seguire i pensieri, purché la portassero lontano dal tango e dall’Argentina, dagli interrogativi e dai rimpianti. Accese la radio e lasciò che la musica le facesse da navigatore. Guidò non so per quanto lungo le strade che costeggiavano i campi a riposo, mentre il sole cercava di farsi largo nella nebbia, ingaggiando quella lotta quotidiana tra luce e vapore che scandisce le giornate invernali della Lomellina. A un certo punto vide l’indicazione per una pieve del XI secolo e, incuriosita, la seguì. La strada si stringeva tra i pioppi e dopo poche centinaia di metri l’asfalto lasciò il posto alla ghiaia, al fango, all’erba. Ad un certo punto fu costretta a posteggiare per non rischiare di rimanere impantanata e percorse gli ultimi metri stretta nel suo piumino, mentre l’umidità la penetrava fin nel midollo. Ed eccola lì la chiesetta. Un piccolo portico, il campanile a punta mezzo diroccato, la porticina chiusa e una finestrella da cui si poteva intravedere un interno buio e freddo. Le girò tutto intorno, camminando sull’erba bagnata, alla ricerca di una epigrafe che le raccontasse qualche cosa di più di quel luogo, della sua storia, delle sue tradizioni. Aveva bisogno di una bella storia e quella chiesetta sembrava proprio uscita dai racconti della memoria popolare, quelli che, come aveva letto, venivano narrati nelle sere di inverno nelle stalle e che alimentavano l’infinita tradizione orale della nostra cultura contadina. D’istinto cercò il telefono per chiedere aiuto a Internet, ma era rimasto a casa, sotto i mucchi di vestiti da sistemare. Non trovando nulla, si sedette in un angolo del portico, dove dalla pietra era stato ricavato un piccolo gradino, forse per i viandanti, forse per chi, come lei, cercava conforto vicino ad una Croce; chiuse gli occhi e respirò il silenzio e il profumo della nebbia.
Non sapeva quanto tempo fosse passato. Improvvisamente sentì un rumore che la ridestò, un fruscio, dei passi. Aprì gli occhi e vide davanti a sé un uomo che la fissava. Era vestito con una mimetica sdrucita, gli anfibi ai piedi, il fucile in spalla: in testa aveva una spessa cuffia di lana grigia e al collo una sciarpa che le ricordò per un attimo Marco, che le amava molto, lunghe, colorate, un po’ estrose. Quella dell’uomo era nera e slabrata e gli copriva un pochino il volto, lasciando però in vista i grandi occhi nocciola, quegli occhi che la stavano fissando con sguardo interrogativo.
– Si sente bene signora? Ha bisogno di aiuto?
– Sì sì grazie. Devo essermi assopita. Adesso vado.
Lui continuava a fissarla e in effetti una pieve in mezzo ai campi nebbiosi a gennaio non era propriamente il luogo migliore dove farsi una pennichella. Laura si rialzò, accorgendosi solo in quel momento di avere tutto il sedere bagnato e di essere davvero intirizzita.
– E’ un luogo speciale questo lo sa? – Gli disse lui porgendole una mano per aiutarla – Raccontano che questa chiesa sia stata costruita sulla Via Francigena tanti secoli fa nel luogo dove alcuni pellegrini erano stati assaliti e derubati da briganti. Si dice che li avessero lasciati senza abiti e senza cibo, quasi in fin di vita, mentre la notte scendeva fredda sui campi. E sarebbero morti di sicuro se un contadino, che viveva in una casa laggiù, non avesse sognato la Madonna che gli diceva di alzarsi subito e di andare ad aiutare dei giovani che avevano bisogno di lui lì vicino. Altri dicono che più banalmente l’uomo si fosse alzato per andare a fare i suoi bisogni e avesse sentito dei lamenti. Fatto sta che li salvò e che per questo si decise di costruire proprio qui questa chiesetta, dedicata alla Madonna dei Campi. Le persone vengono qui per chiedere protezione per i raccolti, ma anche prima di un viaggio oppure quando si sentono davvero sole: la Madonna dei Campi è l’immagine della rinascita e della vita e dà loro conforto. Io credo sia più che altro suggestione, ma se fa bene, che male c’è?
Laura era rimasta in silenzio per tutto il racconto, affascinata dalla voce di quest’uomo, che gli raccontava proprio quello che lei era andata cercando e lo faceva con calma e pazienza, guidandola per mano in un viaggio da fiaba. E mentre lo guardava bene, si accorse che assomigliava tantissimo a Luigi, una persona speciale, un amico sincero, che l’aveva accompagnata per un tratto della sua vita. Come lui aveva modi gentili e semplici, ma non rudi, gli occhi buoni e il sorriso aperto, le mani eleganti, che contrastavano con il fucile, gli stivali, insomma con il suo essere a caccia di faraone. Ecco, anche la caccia gli ricordava il suo amico ora lontano, in quel posto per cui non esistono biglietti aerei e neanche treni, quel posto che è vicino, nel nostro cuore, ma nello stesso tempo così lontano da negare anche solo un abbraccio. Sì, era davvero come lui, e forse per questo gli aveva dato confidenza, lei che per natura era selvatica e diffidente, ora poi più che mai, visto che la vita le aveva regalato l’ennesima fregatura.
– Questa leggenda è davvero bella sa? – Gli disse riavendosi da questi pensieri lontani – E credo che sia vero che un piccolo miracolo ha avuto luogo qui. Certi posti chiamano eventi straordinari e io me ne sono resa conto subito, non appena ho visto questo portico e ho accarezzato la pietra dei muri. Grazie davvero per il suo racconto.
– Nella vita c’è sempre spazio per piccoli miracoli, basta crederci e lasciare l’anima aperta ad accoglierli. Io, per esempio, oggi ho sperato di tornare a casa da mia moglie con un po’ di cacciagione e invece mi sono perso a parlare qui con lei. Perché ho avuto la sensazione che ne avesse bisogno. E che di sicuro il suo sorriso valesse di più di una minilepre. Lasci che la vita le scorra sempre nelle vene impetuosa come un torrente, signora, anche quando arriveranno dei briganti a derubarla e a spogliarla dei sogni, dell’entusiasmo, della voglia di vivere. Il mondo è pieno di ladri, che rubano i sentimenti perché ne sono privi o perché non ne conoscono il valore, mettendo alla prova il nostro cuore. La nostra unica difesa è quella di rispondere al furto con un sorriso sempre più ampio, alla distruzione con un progetto sempre più ambizioso, al dolore con la ricerca della felicità, che è poi il fine ultimo della nostra esistenza. Vada a casa e lavori al suo progetto, e di lì, vedrà, nascerà qualche cosa di davvero importante.
A quella frase Laura ebbe un sussulto. Aprì gli occhi e si rese conto di essere ancora seduta sul gradino. Si guardò intorno e non vide nessuno. Fece il giro della chiesa, ma nulla, solo i ricami delle ragnatele di brina e qualche insetto tra le pareti. Nessuna traccia del cacciatore e del suo passaggio. Eppure era stato così reale, così rasserenante, così intimo. E così simile a Luigi. All’improvviso senti dall’anima salire una irrefrenabile voglia di ridere, e nello stesso tempo di piangere, mentre la luce si affievoliva e il tramonto annunciava una nuova lunga notte. Ridendo e asciugandosi le lacrime tornò verso l’auto, accese la radio, questa volta cercando la sua stazione preferita, trovò Comfortably Numb, e così, cullata dai Pink Floyd, ingranò la marcia e partì.
Carver è stato il tuo spirito guida in questo racconto
Può essere…sai che non ci avevo pensato? Grazie 😉