Mattinata lavorativa lunga e faticosa. Di quelle in cui un problema chiama un altro come le pedine del domino. Un via vai continuo di gente e sorridere a tutti verso l’una diventa più difficile. Così quando entra un tipo a fare la carta d’identità, dentro di te fai uno sbuffo che Eolo non è nessuno. Lo guardi, domande di rito, le foto le ha? Il vecchio documento? Nazionalità? Sì perché non ha nulla del buon gusto italiano, con quel maglione a righe orizzontali rosse e grigie, il gilet trapuntato e la calvizie diffusa compensata dai pochi capelli portati lunghi sulle spalle. Che non sai se gli servono per un improbabile riporto o sono il ricordo di vecchi fasti. Comunque ti dà una carta d’identità tutta sdrucita, la apri e distrattamente digiti la data di nascita. E a quel punto ti blocchi. Sì perché il nome che leggi ti catapulta d’improvviso al liceo. Un quarto di secolo fa. Lui, il più bello della scuola, il più figo, il più alto, il più cool, il più più più, e ovviamente il più stronzo. Che manco mi vedeva. Perché io ero troppo bassa, troppo grassa, troppo riccia, troppo secchia, troppo normale per lui che era il top dei top. Lo aspettavo ad ogni angolo, anelando anche solo un saluto, che non arrivava mai. E sono traumi. Adesso fanno ridere ma sono traumi. Indelebili. Tanto che anche oggi mi è mancato per un attimo il fiato. Che mica l’avevo riconosciuto. Che talvolta gli anni fanno dei brutti, bruttissimi scherzi. Coniugato? Chiedi. No, separato. Eh, bravo, avrai sposato una di quelle strafighe, alte, longilinee, trendy, trasgressive, che appena hai cominciato a perdere il vello e il ciuffo ha lasciato spazio alla piazza e la tartaruga degli addominali si é girata al contrario, ha pensato bene di trovarsi un toy boy di 25 anni e di farti ciao ciao. E vi dirò che a quel punto la mia mattinata ha cominciato a diventare positiva. Sì perché la vendetta è un piatto che va servito freddo, e cominci a prenderti una bella soddisfazione. Procedi. Professione, altezza, capelli. Qui lui fa la battuta, eh pochi, e tu lo assecondi. Ma il bello deve ancora venire. Perché lui non ti ha riconosciuto. Timbro e firma. Prende in mano il documento, lo guarda, ti guarda ed esclama Ma dai! Eravamo al liceo insieme! È vero, come ho fatto a non riconoscerti, sei sempre carina uguale. Lumacone. Sì perché oggi tacco dodici, jeans attillato, giacchetta e faccio la mia porca figura. Tu no, invece. E a quel punto ti fa il quarto grado e conclude con un dai un giorno ci beviamo un caffè insieme. Tu svicoli, ma avresti voglia di dirgli le vedi le iniziali del mio nome? Sono lì sul tuo documento, CC, col cavolo (non penso cavolo, ma se no la mamma dice che sono scurrile) col cavolo che vengo a bere un caffè con te. Neanche morta. Con quello che mi hai fatto passare. Dolore adolescenziale e turbe per anni. Ma lui insiste e te la batte un po’. Pirla era e pirla rimane. Esce e sorridi. Una giustizia divina esiste. Oggi ne hai avuto la prova.