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Dachau

Arrivo a Dachau la mattina presto, su un treno silenzioso, composto, un treno per Dachau. Inutile negare che la suggestione è forte. Non si può visitare un luogo così simbolico senza far riemergere tutto quanto studiato a scuola, letto, visto sullo schermo. Ma ci provo. All’ingresso solo io, apro il cancello su cui svetta Arbeit macht frei in una giornata tersa e fredda, il fumo che esce dalle labbra, il corpo stretto nel piumino, le mani intirizzite mentre premo i tasti dell’audioguida. Freddo fuori e freddo dentro, su questo enorme piazzale che la mente popola di migliaia di persone, che qui hanno perso tutto, in primis la dignità di uomini. E poi le baracche, le torrette, il filo spinato. E i forni. Ed é qui che anche la dura colli cede. Non per il pensiero dell’eccidio. Non per le mille suggestioni. Non perché la cattiveria umana, nostra, cristiana, occidentale, immotivata, non di una cultura diversa come nei proclami delle ultime settimane, non perché questa cattiveria mi fa in fondo molta paura. No. Perché quando davanti ai forni aperti, a fianco alle camere a gas, nel silenzio totale, vedo arrivare una coppia tedesca, lui togliersi il maglione e mettersi in posa per la foto con la maglietta del Bayern che mette in evidenza una pancia considerevole, braccia aperte e pollice in alto, sorridente, lì davanti ai forni crematori, ecco in quel momento capisco che non impareremo mai. Che questa é la sintesi della stupidità del mondo odierno. Che adesso canta la marsigliese e sventola bandiere francesi, che posta frasi di sdegno, e che tra due giorni non si ricorderà più di nulla. Questo é il nostro filo spinato, l’incapacità di fare della storia un possesso per sempre, come diceva Tucidide, un memento per non errare di nuovo. E, scusate, tutto questo è davvero molto triste….

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